Di solito non sono prodigo di complimenti ed elogi per Wayne Coyne e i Flaming Lips. Certo riconosco loro una certa genialità , ma non hanno un posto di rilievo nella storia della musica rock psichedelica e in generale non hanno avuto nessuna incidenza particolare sul revival del genere a partire dall’inizio degli anni Novanta.
Hanno al contrario sicuramente contribuito in maniera stravagante a proporre una certa cultura pop art, con performance dal vivo spettacolari e scelte sul piano delle pubblicazioni discografiche e della comunicazione che pure vuote sul piano dei contenuti, fini a se stesse oppure persino di cattivo gusto, li hanno infine fatti diventare popolari anche presso un pubblico che con la musica “rock” appunto non ha nulla a che fare.
Non è strano allo stesso modo che ci troviamo ad apprezzare, una volta tanto, i contenuti e il valore di questa proposta discografica, questo a causa di un vero e proprio “paradosso” perché in generale non mi piacciono i concept album e King’s Mouth lo è a tutti gli effetti. Un concept album che, tanto nell’immaginario quanto nei suoni, pesca a piene mani dalla cultura degli anni Settanta, al punto da farsi persino pinkfloydiano e proponendo significativamente nell’ambito della cultura pop temi importanti e alti, intrecciando riflessioni sulla fragilità della vita con storie di fantasia e visioni qui propriamente psichedeliche.
Nel parallelo con i Pink Floyd, va detto che ancora non si sfugge alle tensioni al gigantismo: l’opera è la sonorizzazione di un’installazione artistica di Wayne Coyne, una gigantesca testa di metallo con luci psichedeliche che è già un classico delle performance del gruppo; allo stesso modo i suoni, sebbene non siano così curati alla maniera maniacale di quel gran “testone” (ancora) di Roger Waters e non abbiano un sound classico anni ’70, ne possiedono comunque la forza narrativa, che si mescola a dimensioni lounge spaziali come in The Sparrow, momenti pop più disimpegnati come in How Many Times e Feedaloodum Beedle Dot, addirittura rimandi a roba tipo Galaxie 500 in Giant Baby.
Incanalatosi in una mission specifica, Coyne riesce nella scrittura di pezzi finalmente belli, come ad esempio Mouth Of The King oppure How Can A Head, e convincono anche le parti più strettamente narrative. Quelle che vedono la curiosa collaborazione del vecchio Mick Jones (!!!), che fanno pensare al Donovan di “Atlantis” (da “Barabajagal”, 1969) e che rendono in maniera incrementale le sensazioni di forte commozione costringendo alla partecipazione emotiva gli ascoltatori, piegando alle ragioni del consenso anche i più insensibili.
(2019, Bella Union)
01 We Don’t Know How And We Don’t Know Why
02 The Sparrow
03 Giant Baby
04 Mother Universe
05 How Many Times
06 Electric Fire
07 All For The Life Of The City
08 Feedaloodum Beetle Dot
09 Funeral Parade
10 Dippel In Steel
11 Mouth Of The King
12 How Can A Head
IN BREVE: 3/5