Sì, perché l’apparenza per il seguito del nominato ai Grammy del 2011 “Helplessness Blues” è parzialmente sfavorevole: il suono è sostanzialmente invariato, i momenti che catturano immediatamente l’orecchio a un ascolto distratto, immerso nella rumorosa, faticosa, noiosa vita quotidiana, sono pochini. Non ci sono colpi di scena clamorosi, non sono stati aggiunti strati sonori di sintetizzatori, non c’è stata la svolta pop che va tanto di moda. Ci sono undici brani, per quasi un’ora di ascolto; fate un po’ voi la media della durata del singolo pezzo. Troppa, potrebbe sembrare all’ascoltatore moderno che fa zapping su Spotify da un pezzo all’altro.
Ma in realtà la durata media dei pezzi ha una rilevanza relativa, dato che questo Crack-Up è sostanzialmente una lunga suite, vicina più agli epici esordi del pressoché dimenticato Mike Oldfield, che oggi viene ricordato quasi esclusivamente per il tema iniziale di “Tubular Bells”, ma che un tempo sfornava lunghissime suite incentrate sulla sua chitarra e sull’abilità di stratificare suoni, riuscendo tuttavia a dare una sensazione di spazio. Una qualità che Pecknold condivide con il chitarrista di Reading.
Questa lunga suite, come accadeva peraltro con Oldfield, ha un primo culmine alla metà dell’album, con quella Third of May / Ōdaigahara che è servita da singolo apripista, e che è quella che forse suona maggiormente come i due predecessori di “Crack-Up”. La breve pausa fornita da If You Need To, Keep Time On Me, il pezzo più scarno dell’album in termini di arrangiamento, prepara la pista per il brano migliore (Mearcstapa) che anticipa una seconda metà più varia della prima e che propone nuove soluzioni sonore (su tutte I Should See Memphis, nella quale Pecknold usa un registro vocale molto più basso del solito, sostenuto da archi e una chitarra ritmica come di consueto quasi percussiva).
Ma alla seconda metà ci si arriva un po’ stremati se non ci si è immersi totalmente nel mondo dei Fleet Foxes. “Crack-Up” è un altro ottimo album della formazione di Seattle; non è perfetto come l’esordio, ma questo vale anche per una larghissima parte degli album usciti negli ultimi vent’anni. È un passo avanti molto coraggioso in termini compositivi, dato che si slega quasi totalmente dalla forma canzone, e non mancherà di fare storcere qualche naso, dato che scambiare l’ambizione con la presunzione è semplice per chi non capisce un cazzo.
Pecknold è una rockstar vera, forse nell’unico modo nel quale puoi essere una vera rockstar in questi tempi di sovraesposizione: si fa i cazzi suoi, fa musica, crea anticipazione facendosi semplicemente la sua vita, nulla di più, nulla di meno. Che gli dei ce lo conservino intonso, sempre capace di sfornare musica fresca e che richieda la più totale attenzione per essere apprezzata, ché di musica usa & getta ce n’è già sin troppa.
(2017, Nonesuch)
01 I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar
02 Cassius, –
03 – Naiads, Cassadies
04 Kept Woman
05 Third Of May / Ōdaigahara
06 If You Need To, Keep Time On Me
07 Mearcstapa
08 On Another Ocean (January / June)
09 Fool’s Errand
10 I Should See Memphis
11 Crack-Up
IN BREVE: 4/5