Un iter compositivo lungo ben tre anni ha segnato la travagliata gestazione del sequel di quell’omonimo debutto che tramutò gli allora misconosciuti Fleet Foxes nei nuovi beniamini dell’indie-rock contemporaneo. Per stessa ammissione di Robin Pecknold, cantante-chitarrista e leader della cricca di Seattle, il fardello di dover confermare gli elogi planetari ricevuti col primo disco si è fatto insopportabile durante il processo di scrittura del nuovo materiale e ha condotto il gruppo a fare e disfare più volte quanto già costruito. È infatti evidente la mancanza di quella spontaneità presente nell’esordio, ma, se ciò si considerasse dal punto di vista opposto, questa potrebbe essere intesa come una crescita, una maturità. Infatti Helplessness Blues è un disco che non va liquidato con pochi e approssimativi ascolti, bensì il suo valore fiorisce giro dopo giro dopo giro sulla piastra dello stereo. È ricco di sfumature, sia strutturali che nei telai degli arrangiamenti, grazie a suoni ponderati fin nei minimi dettagli, forse anche fin troppo levigati (al mixer c’è Phil Ek, come tre anni fa). Ma a colpire è la solidità di una scrittura che ribadisce ognuno degli elementi che l’hanno resa celebre. Invero, nulla di rivoluzionario, ma gli equilibri interni di questo amalgama di cantautorato folk, cenni gospel e calore blues, sono perfetti. Pecknold è eccezionale nei suoi vocalizzi pindarici, mai prevedibili o gratuitamente ampollosi, sempre ricercati e ben integrati nel tessuto. E allora perché non lodare il soul sgambettante di Bedouin Dress squarciato da un giocoso violino o lo scatto fulmineo di Sim Sala Bim? Perché non dire che Lorelai è pura primavera che volteggia sul davanzale della finestra, che The Plains / Bitter Dancer discende e risale le correnti tonali della sua obliqua melodia portante, che The Shrine / An Argument, a dispetto dei suoi oltre otto minuti, si vorrebbe che continuasse ancora e ancora? Lo spirito dell’intero lavoro è però racchiuso tutto nella title-track: voce sognante che soffia sul terreno umido che profuma di pioggia e il cuore palpita con eco vibranti che accarezzano i fianchi della montagna. Il pezzo migliore, senza alcun dubbio. Queste sono canzoni che vanno in circolo nel sangue e divengono parte della colonna sonora delle nostre giornate. Forse quel che manca è il guizzo melodico da brividi, come successe con quel gioiello da patrimonio dell’umanità che è “Blue Ridge Mountains”. Ed è anche vero che, dopo tre anni di altissime aspettative, questo è un disco meno clamoroso di “Fleet Foxes”, ma se sgomberassimo il campo da inutili pretese innovatrici e ascoltassimo solo ciò che la nostra anima percepisce, ben pochi lì fuori si sentirebbero delusi. “Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati”, diceva Calvino. Sostituite “libri” con “dischi” e “letti” con “ascoltati”. Dovrebbe essere sempre così.
(2011, Sub Pop)
01 Montezuma
02 Bedouin Dress
03 Sim Sala Bim
04 Battery Kinzie
05 The Plains / Bitter Dancer
06 Helplessness Blues
07 The Cascades
08 Lorelai
09 Someone You’d Admire
10 The Shrine / An Argument
11 Blue Spotted Tail
12 Grown Ocean
A cura di Marco Giarratana