Annunciato con sole ventiquattro ore di anticipo il 22 Settembre, giorno del solstizio d’autunno, è arrivato a sorpresa il nuovo album dei Fleet Foxes. Ovviamente la scelta del giorno ha un valore simbolico, una sorta di uscita allo scoperto dopo il grigio periodo del lockdown e in un momento che resta peraltro particolarmente difficile tanto negli Stati Uniti quanto nel nostro Paese.
Il disco ha avuto una gestazione lunga, Robin Pecknold aveva cominciato a lavorarci su già nell’autunno del 2018, voleva fare una cosa diversa, ritornare a una dimensione più essenziale rispetto a “Crack-Up” (2017) – alla fine, ascoltando il disco, possiamo dire che non ci è riuscito – ma fino allo scorso Marzo aveva scritto e registrato solo un mucchio di musica. I testi sono venuti fuori quando la pandemia ha cominciato a diffondersi in giro per il mondo e poi negli Stati Uniti d’America. Ha registrato il resto dell’album nello studio di Aaron Dessner dei The National a New York con il resto del gruppo e un po’ di collaboratori.
In un certo senso Shore è più un disco solista di Pecknold che un album dei Fleet Foxes a tutti gli effetti (semmai fosse necessario sottolineare il suo ruolo centrale all’interno del gruppo). Nonostante ciò, è un album che per come è strutturato, la lungaggine, il tipo di arrangiamenti, non può prescindere dal resto dei componenti del gruppo così come da tutti i collaboratori che hanno contribuito alla registrazione delle canzoni del disco. Se voleva essere un disco “essenziale”, quindi, “Shore” fallisce nel suo intento, non si presta a un ascolto facile, come dire, spassionato, né si caratterizza per una particolare immediatezza, mentre lancia invece messaggi che si irradiano di luce e si trasmettono all’ascoltatore in una maniera accomodante.
Le canzoni esprimono una certa luminosità à la Brian Wilson (citato tra i riferimenti principali con Arthur Russell, Curtis Mayfield, Nina Simone, Van Morrison, Sam Cooke, Joao Gilberto) e sono una sorta di chiamata al risveglio e a guardare le meraviglie della vita. D’altro canto, sono proprio questi i motivi dei pezzi più interessanti, le “albe” di A Long Way Past The Past e della title track, gli effetti per la voce di For A Week Or Two e Thymia, il mood di I’m Not My Season e Going-To-The-Sun Road. Sono belle canzoni, che rendono la sensazione che ha la vista quando guardi il sole dritto negli occhi e i tuoi ricordi sembrano bruciare. Altri pezzi hanno una vena tipicamente pop psichedelica,Sunblind tra gli episodi più riusciti, così come sono interessanti gli arrangiamenti di Quiet Air / Gioia.
Tutta una serie di altre cose, però, convince veramente poco: questo “vintage” sembra qualcosa di macchinoso, Robin Pecknold scrive un disco sulla gioia di vivere, lo fa certo con una scrittura “rarefatta”, ma anche in una maniera artefatta, complice l’utilizzo eccessivo di una certa effettistica che alla lunga diventa persino fastidiosa. Con pezzi come Can I Believe, Maestranza e Young Man’s Game siamo davanti a un manierismo pop in chiave Tame Impala che ha francamente stufato.
La sensazione è che le ragioni stiano nei limiti di un certo approccio alla materia pop psichedelica che è intriso di estetica e che non ha un vero contatto con le ragioni della controcultura degli anni Sessanta/Settanta, né per quello che riguarda l’aspetto più “americana” riesce a farsi portatore di istanze che siano qualcosa di veramente concreto. Mirano ad altro, ma quanto di tutto questo è destinato a restare e avere veramente un suo valore intrinseco? Un disco che pone seriamente un tema di tipo narrativo, ma non lo affronta.
(2020, Anti-)
01 Wading In Waist-High Water
02 Sunblind
03 Can I Believe You
04 Jara
05 Featerweight
06 A Long Way Past The Past
07 For A Week Or Two
08 Maestranza
09 Young Man’s Game
10 I’m Not My Season
11 Quiet Air / Gioia
12 Going-To-The-Sun Road
13 Thymia
14 Cradling Mother, Cradling Woman
15 Shore
IN BREVE: 2,5/5