Chi è disposto a stare ad ascoltare delle favole? Chi non ha perso per strada certa curiosità incantata? Chi è rimasto bambino dentro? Un po’ tutti dovremmo, almeno qualche volta, tenerci stretta l’infanzia che è stata, soprattutto nella capacità di immaginazione, di “volo” e “ritorno”, di sdoppiamento e magia; chiudendo nel cassetto l’antipatico esercizio del cinismo che porta con sé la maturità. I Fleet Foxes sembrano riuscire bene nell’intento di suonare il sogno e il fantastico. Le fiabe dell’omonimo Fleet Foxes sono, così, delicatissimi acquarelli di un artista di corte, il canto di un aedo cieco ma ispirato, sono le storie che si tramandano faccia per faccia, mano per mano, sacco per sacco, nel passaggio indaffarato che avviene tra i viottoli di una città arroccata nel suo tufo giallo. D’altra parte la cover art di questo disco uscito a metà 2008, si presenta come un magnifico ingorgo di uomini e mestieri: poeti, macellai, cacciatori, preti e santi, mugnai, contadini, operai in uno scenario verosimilmente medioevale. E le canzoni del disco sono racconti antichi, sonate dolcissime, portate in vita da cori celestiali e dagli eco che li trasportano lontani con fievoli pianoforti, chitarre bucoliche, gong, tastiere epiche, mandolini, flauti, banjo (Blue Ridge Mountains). Però i nostri vengono dalla provincia americana e allora portano dentro anche un po’ della cultura popolare: vecchia polvere country (Ragged Wood), e arcane filastrocche di montagna (White Winter Hymnal, Oliver James, Sun It Rises, Tiger Mountain Peasant Song). Un incantesimo un po’ moderno e un po’ antico, dunque, questo album. Un lavoro che rapisce nell’immediato fascino del lontano, dell’irraggiungibile. E, allora, li considereranno hippy, sognatori, illusi menestrelli di miti vuoti e impalpabili, ma i Fleet Foxes possiedono una qualità che molte band nuove non hanno: nel loro incedere di voci, suoni magnifici, carezze sonore, riescono a tenere l’ascoltatore inchiodato lì ad immaginare favole, a rispolverare la vecchia curiosità perduta chissà quando e ritornare bambino almeno per un po’. Ci pare una ragione sufficiente per reputare, questo, come uno dei dischi migliori della coda della prima decade dei Duemila.
(2008, Sub Pop)
01 Sun It Rises
02 White Winter Hymnal
03 Ragged Wood
04 Tiger Mountain Peasant Song
05 Quite Houses
06 He Doesn’t Know Why
07 Heard Them Stirring
08 Your Protector
09 Meadowlarks
10 Blue Ridge Mountains
11 Oliver James
A cura di Riccardo Marra