Un tour (che passerà anche dall’Italia) appena annunciato, una prolificità non esattamente alta (siamo al secondo album negli ultimi sette anni) e soprattutto lo status (meritatissimo) di creatura musicale unica nel suo genere: erano queste le motivazioni che giustificavano un’attesa quasi spasmodica per il quarto lavoro in studio di Florence Welch e i suoi Machine.
La cantautrice inglese (parlare di band per i suoi musicisti d’accompagnamento sarebbe abbastanza fuorviante) era stata protagonista di un inizio fulminante di carriera, con due album – “Lungs” (2009) e “Ceremonials” (2011) – straordinari e assolutamente complementari fra loro. Poi l’ottimo “How Big, How Blue, How Beautiful” (2015), pieno di eccellente materiale ma leggermente al di sotto rispetto ai dischi degli esordi. Si giunge così dopo tre anni a questo High As Hope, che – non ce ne vogliano i fan della Welch – rappresenta sicuramente l’album meno convincente della sua discografia, proprio a causa della qualità eccelsa dei lavori precedenti.
Parlare di parabola discendente (visti e considerati anche gli incendiari live della band) sarebbe di certo esagerato, ma è un dato di fatto che l’album manchi di un certo mordente: le canzoni degne di nota ci sono, ma a stento rappresentano la metà del disco e sarebbe disonesto da parte nostra dire il contrario. Che non fosse aria si era capito dal primo singolo, la mediocre Sky Full Of Song, che nella tracklist dell’album è preceduta dall’ottimo trittico June / Hunger / South London Forever, vero punto di forza del disco: attenzione, non parliamo di canzoni paragonabili a certi capolavori alla quale la magnetica Florence ci aveva abituati, ma trattasi comunque di brani che viaggiano ben oltre la sufficienza.
Male Big God, che vorrebbe creare atmosfere inquietanti ma il risultato è però quello di una scadente b-side, così come la noiosa Grace e 100 Years, che non si capisce dove voglia andare a parare: probabilmente Florence e soci risolleveranno dal vivo qualcuno di questi brani, ma su disco il risultato è quello che è. Va sicuramente meglio con The End Of Love e soprattutto con l’ottima Patricia, meritevole di un commovente finale dove riassaporiamo la migliore Florence. Ma è giusto un assaggio, visto che la conclusiva No Choir conferma il trend non esattamente brillante dell’album.
A questo punto siamo davvero curiosi di capire cosa ci riserverà la Welch in futuro: un nuovo album a zero rischi, utile per campare di rendita, o qualcosa di più sperimentale per ritrovare l’ispirazione in parte perduta? Noi ovviamente speriamo nella seconda ipotesi.
(2018, Virgin EMI)
01 June
02 Hunger
03 South London Forever
04 Big God
05 Sky Full Of Song
06 Grace
07 Patricia
08 100 Years
09 The End Of Love
10 No Choir
IN BREVE: 2,5/5