Glenn Jones è tra tutti i musicisti in circolazione la figura più autorevole per quello che riguarda la continuazione di quell’esperienza che, cominciata a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta da un innovatore gigantesco nella storia della musica come John Fahey, fu definita come “American Primitive Guitar”. L’intenzione nella definizione era quella di differenziare la cosa dal primitivismo inteso come forma d’arte pittorica e scultorea, ma in verità fu proprio lo stesso Fahey a considerare che il suo lavoro avesse una correlazione con quella forma d’arte. In questo senso forse segnò un certo distacco da esperienze new age e lo sviluppo di una determinata forma di psichedelia folk che sarebbe seguita negli anni successivi. Il suo lavoro, come quello degli altri iniziatori del genere (e dei loro prosecutori), è infatti per lo più un’opera di vera e propria ricerca con la quale, mescolando spinte avanguardistiche e forme di composizione complesse “neo classiche”,siva a riprendere la tradizione country e folk americana delle origini e in particolare quella tecnica conosciuta come fingerpicking.
L’esperienza di John Fahey, va da sé, ha fatto scuola. Ancora oggi ci sono un mucchio di chitarristi e di musicisti che vi si ispirano: nomi conosciuti come Sir Richard Bishop e Ben Chasny, James Blackshaw e lo stesso Jim O’Rourke. Ma nessuno come Glenn Jones è veramente mai riuscito a entrare così a fondo dentro quella dimensione. Musicista brillante, suona la chitarra e il banjo, i suoi studi nel campo del primitivismo cominciano già ben prima della sua esperienza fondamentale con il gruppo Cul de Sac (nella discografia anche un disco realizzato proprio in collaborazione con John Fahey: “The Epiphany of Glenn Jones”), ma solo negli ultimi anni hanno probabilmente trovato la loro giusta dimensione e quella continuità sul piano delle produzioni discografiche rafforzate dalla partnership con la Thrill Jockey Records, che ha evidentemente anche giovato al suo legame con lo strumento.
The Giant Who Ate Himself And Other New Works for 6 & 12 String Guitar è una collezione di sue composizioni (dieci) che conclude idealmente una trilogia cominciata nel 2013 con “My Garden State” e proseguita poi con “Fleeting” nel 2016. Tutti e tre i dischi sono stati registrati nel New Jersey presso lo studio di Laura Baird, che con Matthew Azevedo (al mixing) forma una vera e propria squadra di sostegno e di accompagnamento nei lavori di Jones. I pezzi contenuti nell’album sono stati composti e completati nel corso degli anni, ognuno di questi racconta delle storie e lo stesso titolo fiabesco dell’album lascia intendere questa componente e rimanda giustamente a quella incredibile capacità narrativa che questo genere musicale riesce a esprimere pur senza l’uso di nessuna parte cantata e/o recitata.
A differenza di “Fleeting”, qui Jones mette da parte il banjo e suona solo la chitarra e anche la chitarra a dodici corde, circostanza che influisce nel dare alle storie contenute nel disco una più marcata tinta pastello. Se volete trovare i contenuti delle storie raccontate nell’album, attaccatevi ai titolo, poi chiudete gli occhi e lasciatevi letteralmente cullare dal suono e da questi arpeggi, fingerpicking e costruzioni armoniose che sono tanto prova di virtuosismo e capacità tecniche quanto di una spiccata sensibilità artistica.
(2018, Thrill Jockey)
01 The Giant Who Ate Himself
02 Everything Ends
03 The Last Passenger Pigeon
04 The Was And The Is
05 A Different Kind Of Christmas Carol
06 River In The Sky
07 From Frederick To Fredericksburg
08 Even The Snout And The Tail
09 Elliot Audrey, Born Today
10 The Sunken Amusement Park
IN BREVE: 3,5/5