In fondo sta tutto in Ouroboros, primo singolo estratto nonché traccia conclusiva del nuovo omonimo album dei Goat, il senso di tutto il disco e più probabilmente dell’intera parabola della formazione svedese. L’uroboro, una figura circolare rappresentante un serpente/drago che si morde la coda all’infinito, rende perfettamente il concetto su cui i Goat hanno fondato il loro percorso fin dagli esordi, un continuo inseguirsi di figure ricorrenti, di spunti sparsi in giro per i decenni e ripresi di volta in volta dal collettivo scandinavo per farne il loro solito pastone di psichedelia, krautrock, progressive, funk, world music e molto, molto altro. Solo che il loro non è mai stato un percorso autoreferenziale, si è sempre trattato di una costante evoluzione perseguita tramite l’aggiunta sistematica di nuovi elementi e nuove visioni, un po’ come se l’Uroboro/Goat crescesse, maturasse, si rafforzasse ad ogni nuovo giro su se stesso.
Questa volta, che per i Goat è semplicemente omonima e non è forse un caso, il pastone di cui parlavamo torna un po’ indietro all’interno della discografia della band, in quel moto circolare che si diceva, lasciando in larga parte le trame prettamente folkeggianti del precedente “Medicine”, pubblicato lo scorso anno, per ricacciarsi in quella psichedelia cosmica che è la loro vera e più pressante cifra stilistica, come nei riff sixties di One More Death o nell’hard rock traballante di Dollar Bill. Le novità , quelle che rendono ogni disco dei Goat sempre un passo avanti, le si riscontra innanzitutto in Zombie e nella già citata Ouroboros, che poggiano su basi dichiaratamente hip hop come mai era successo, il tutto mescolato ai soliti ingredienti di casa Goat a formare una pozione davvero allucinogena.
Ma c’è anche dell’altro, perché ad esempio Fools Journey si intestardisce su dei fiati inebrianti, Frisco Beaver si perde in un funk ipnotico che riporta direttamente a “World Music”, esordio dei Goat datato 2012, mentre All Is One si ricollega al folk del già citato “Medicine”. Insomma, il campionario dei Goat resta sempre dannatamente vario e arzigogolato, un campionario che in Goat si arricchisce di divagazioni ai limiti dello stoner (quello più lisergico di band come i Pontiak, per dirne una), di afflati jazz mai così presenti (emblematica Goatbrain), di mille gocce di questo, quello e quell’altro ancora che contribuiscono tutte a disegnare un paesaggio sonoro in continuo movimento. Un movimento circolare, ovviamente.
2024 | Rocket
IN BREVE: 4/5