Innovazione ed evoluzione sono due concetti molto complicati da applicare al mondo post rock. Vuoi per le caratteristiche intrinseche al genere, nettamente definibili (quasi totale assenza di vocals, climax ritmici crescenti, tappeti sonori di stampo noise), vuoi per un approccio emotivo/sensoriale che per quanto cardine non permette di evadere molto oltre evocazioni di carattere spaziale; in meno di tre decadi oltre a un progressivo indurimento delle sonorità verso lidi più metallici non si sono avvertiti veri e propri stravolgimenti. Non che il progresso sia una condizione essenziale per gli insiders; chi si nutre di post rock sa benissimo cosa volere e aspettarsi da una musica così estemporanea, al contempo troppo autentica per essere guidata dalla massa e forse ancora troppo moderna per essere compresa con immediatezza. I God Is An Astronaut sono una di quelle band che, passo dopo passo, sono riuscite a costruirsi una nomea di rilievo in questo ambiente elitario. Forti di una costanza compositiva quasi anomala, in primis le stupende melodie l’hanno resa una delle realtà più importanti del mondo “post”, forse giusto un gradino sotto padri come Mogwai e Godspeed You! Black Emperor.
Nei quindici anni di carriera del combo irlandese, la possibilità di esprimersi al di fuori degli standard c’è stata e pure perseguita entro limiti canonici. Alcuni grezzi angoli chitarristici si sono smussati, la componente elettronica è aumentata e i ritmi han subito altalene importanti, con dischi come “Origins” (2013) a eccedere in un indie strumentale del tutto originale. Epitaph, nona uscita discografica per i ragazzi della contea di Wicklow, disegna un ulteriore capitolo di una carriera già ben matura e, ancora una volta, è personale rappresentazione di come e cosa il post rock possa essere. Sette tracce dal carattere distinto ma unite da un chiaro rallentamento nei tempi che va a influenzare anche tutto l’apporto emotivo che un disco come questo può comunicare.
A partire da brani più convenzionali come la maestosa title track, la classica Mortal Coil e la bellissima Seance Room è comunque percepibile quanto i God Is An Astronaut abbiamo voluto e cercato fortemente di frenare il più possibile il proprio output sonoro tra arrangiamenti di piano e qualche soluzione alternativa mai da loro sperimentata. La resa è particolare e basterebbe la sola Winter Dusk/Awakening a dipingere l’intero racconto introspettivo, oltretutto ben supportato da un utilizzo della strumentazione (quattro synth, innumerevoli pedali) che genera rimandi floydiani di primissimo livello.
Il trittico finale, al contrario, lascia aperti dubbi su quanto il nuovo approccio dei GIAA sia il compimento di una scelta stilistica ponderata, piuttosto che il principio di una carenza compositiva che potrebbe originare, specialmente nei fan di lunga data, interrogativi sul percorso che verrà intrapreso in futuro. Esclusa la lunga Medea, che comunque non si sarebbe trovata fuori luogo su lavori degli Enigma di prima data (e non è un difetto), il singolo Komorebi e la conclusiva Oisín poco sono più che espedienti atmosferici al limite con l’ambient, del tutto privi di quella verve che ha reso ai nostri piena fortuna ai tempi di album come “All Is Violent, All Is Bright” e “Far From Refuge”. Sufficiente senza dubbio, ma più che qualche ascolto sporadico non ci potrà regalare.
(2018, Napalm)
01 Epitaph
02 Mortal Coil
03 Winter Dusk/Awakening
04 Seance Room
05 Komorebi
06 Medea
07 Oisín
IN BREVE: 3/5