Alison Goldfrapp e Will Gregory non sono mai stati famosi per ripetersi. Seppur con la costante presenza di un’abbuffata di sintetizzatori, il duo londinese ha sempre avuto modo di proporre atmosfere e suoni diversi: pop anni ’80, downtempo, trip hop, glam pop e persino una sorta di folk elettronico nell’ultimo, acclamato “Tales Of Us”. Rimane la sensualità della bella Alison e, come dicevamo poc’anzi, sintetizzatori, sintetizzatori a iosa.
I due irrequieti ormai cinquantenni (Will Gregory in realtà ne ha quasi sessanta, di anni) nonostante siano arrivati grandi al vero successo mondiale – con quel sottovalutato capolavoro immenso ed irripetibile di “Felt Mountain”, esordio del 2000 – hanno sempre avuto la mentalità di una band agli esordi, sempre portati ad evitare la noia, a cercare “qualcos’altro” e non solo musicalmente: la mutevole immagine di Alison, studentessa d’arte se mai ce n’è stata una, gli artwork e i video del gruppo, hanno ogni volta voluto presentare qualcosa di diverso, di rappresentativo del momento.
Questo settimo album è quindi una sorpresa, e quando diciamo sorpresa intendiamo che è sorprendente vedere da due del genere, due col pepe al culo, due sempre in vena di stupire, un qualcosa di… standard. Silver Eye rappresenta, se ci passate il paragone ardito, quello che per gli U2 fu “All That You Can’t Leave Behind”: un momento in cui i nodi vennero al pettine e si decise di pubblicare un disco “rappresentativo”, ovvero un qualcosa che raccogliesse gli elementi musicali che hanno caratterizzato la band e li ripresentasse in forma vagamente rimodernata per un pubblico nuovo, senza dimenticare i vecchi fan.
È chiaro che sussistono delle differenze enormi tra le due situazioni: la prima, la più evidente, il fattore economico: indovinare o sbagliare un disco significa cifre di proporzioni ampiamente differenti, dal punto di vista della pecunia. La seconda, altrettanto evidente: mentre gli U2 venivano da “Pop”, fallimento di critica e di pubblico che voleva introdurre suoni differenti (in alcuni casi in maniera estremamente valida), i Goldfrapp vengono da un successo di critica che li ha pure riportati alla ribalta internazionale. Ancora, “All That You Can Leave Behind” banalizzava tutto ciò che era stata la band fino a quel momento rendendola macchiettistica, “Silver Eye” non ha nulla di banale, è invece un album familiare, nel senso che è riconoscibilmente Goldfrapp in tutte le maniere diverse nelle quali i Goldfrapp sono riconoscibili.
Ci sono, certamente dei difetti: il primo è Anymore, primo singolo e prima traccia dell’album, tentativo palese (e fallito) di attaccarci un singolone alle palle. Il secondo è la mancanza di brani che si ergano come pezzi veramente memorabili: ci si avvicinano Beast That Never Was (il pezzo migliore dell’album) e la conclusiva Ocean, e ancora Faux Suede Drifter, psichedelica il giusto, affascinante e sensuale, ma dimenticabile a meno di ascolti multipli.
In ogni caso, “Silver Eye” si fa ascoltare più che volentieri e sarà solo il futuro a dirci se il duo sia arrivato a quella fase della carriera nella quale la sperimentazione viene messe un po’ da parte per produrre dischi riconoscibili ma pur sempre validi (e, da non sottovalutare, proficui), o se questo piccolo bignami della loro carriera sia solo un tassello, l’ennesimo, di una carriera da outsider di successo.
(2017, Mute)
01 Anymore
02 Systemagic
03 Tigerman
04 Become The One
05 Faux Suede Drifter
06 Zodiac Black
07 Beast That Never Was
08 Everything Is Never Enough
09 Moon In Your Mouth
10 Ocean
IN BREVE: 3/5