La più che ventennale avventura dei Gorillaz sembra ormai dal suo incipit avere uno schema ben delineato. Hewlett prepara i video, Albarn porta un cast di tanto improbabili quanto straordinari collaboratori, vecchi e nuovi: Del the Funky Homosapien, Bobby Womack, Vince Staples, Ibrahim Ferrer, Danny Brown, Grace Jones, Elton John, Miho Hatori, Mavis Staples… Lo schema è pressoché identico a quello dei Simpson: si costruisce una cornice, si prepara il cast di ospiti, ogni ospite va in un episodio. Beh, più o meno. Questo schema nei Simpson è diventato stantio abbastanza presto, dato che alla vanteria di poter ottenere il contributo più o meno di qualunque ospite al mondo non si è affiancato nessun ragionamento interessante su come usare al meglio quei contributi, peggiorando di anno in anno le sceneggiature.
Nel caso invece della band di Albarn e Hewlett la partecipazione è stata spesso collaborazione, la scrittura ha cercato di rimanere fresca anche a costo di sbagliare il tiro ogni tanto e la verve di Albarn, sempre più viva anche se sempre più malinconica, ha retto in piedi il progetto e, anzi, ha sostituito i Blur nell’ordine delle priorità. Ma lo schema, dopo ventidue anni, non gode di buona salute.
Un’altra lista: Stevie Nicks, Beck, Tame Impala, Bootie Brown, Bad Bunny, Adeleye Omotayo, Thundercat. Idiosincratica come sempre, ma poi, come sempre, ci si aspetta che Albarn e chi di turno a collaborare nel quadro generale (Kurstin e Kabaka Jr., in questo caso), riescano a non far saltare il banco e far uscire fuori un ottimo disco. Nel singolo omonimo dell’album (seguito di “Plastic Beach”?) con Thundercat, che di collaborazioni ne sa qualcosina, funziona tutto alla perfezione, e si apre l’album con una sensazione di pericolo scampato, come accadeva nelle stagioni buone dei Simpson quando ancora significavano qualcosa vedendo il primo episodio di una stagione che grazie a quello si presentava assolutamente ancora dignitosa.
Ma, andando avanti, forse la sensazione che lo schema stia diventando stantio si presenta. Non tanto qualitativamente: il singolo Silent Running con Omotayo funziona certamente, ed è uno dei migliori pezzi dei Gorillaz da tanto tempo a questa parte; e funziona anche il momento locura con un eccellente Bad Bunny, che piega Tormenta al suo talento. No, non è un problema di pezzi o di collaborazioni, funziona anche Kevin Parker, Mr. Tame Impala, che in New Gold ci fa venire nostalgia della sua band. Qualche passo falso, come una sorta di coda j-pop in Skinny Ape, che di suo era un altro ottimo, malinconico pezzo di Albarn, ma niente di grave.
No, è invece un problema di long playing, nel senso che è l’ascolto complessivo dell’album che non sembra funzionare come sempre. Non un brutto album: a questo punto della sua carriera siamo fermamente convinti che Albarn sia stato vaccinato alla nascita contro questa evenienza e sia fisicamente incapace di concepire un album brutto. Ma sicuramente un album che, complessivamente, dà la sensazione di patchwork persino più che la compilation “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020) che un patchwork lo era abbastanza letteralmente.
L’effetto straniante di Bad Bunny con un’evanescente Stevie Nicks con un dominante Kevin Parker non è sorprendente, non più di quanto siano stati gli accostamenti di “Gorillaz” (2001) o “Humanz” (2017), al limite farà storcere il naso e girare gli occhi al cielo a quelli che già dei Gorillaz ne hanno le palle piene: “La prossima volta chi prenderà, Julio Iglesias e Young Signorino?”. Una buona collezione di canzoni, con qualche highlight di livello che, chiaramente, se giudicato in senso assoluto è un ascolto di indiscutibile valore. Ma per affetto consentiteci di non trattare Albarn come uno qualunque. E permetteteci di fare le critiche che si fanno al primo della classe.
— 2023 | Parlophone —
IN BREVE: 3,5/5