C’è qualcosa di sinistro nel cantato di Grace Cummings. Non è, però, qualcosa di convenzionalmente sinistro. È più una sensazione, un retropensiero che si nasconde nelle pieghe della sua voce roca. Ecco, la sua cifra: la padroneggia da veterana, nonostante la sua giovane età, risultando una sorpresa alle orecchie di coloro che non avevano ascoltato l’esordio del 2019, “Refuge Cove”.
La scrittura della songwriter di Melbourne è asciutta, rifugge da barocchismi compositivi. Il ritmo è dato dall’incedere delle liriche, non si avvertono linee di batteria, salvo alcuni episodi. Questo tratto era molto evidente nel primo disco, più scarno negli arrangiamenti e così vicino alla tradizione folk dura e pura. Dylan è una presenza costante, un padre putativo presente nelle atmosfere dei pezzi della Cummings. E non è solo per l’essenzialità nella costruzione armonica dei brani, è la lezione del menestrello di Duluth a ritornare prepotente: non bastano una chitarra acustica e testi intimi che si specchiano nelle paturnie del vissuto quotidiano, serve personalità nel saper raccontare, e ciò all’australiana non manca.
Storm Queen, al pari del precedente, è autoprodotto dalla stessa Cummings che qui osa leggermente di più in termini di scelta di suoni. Il piano offre una variazione al modo di costruire i leitmotiv sonori, alcune accennate linee di basso donano maggiore cupezza alle atmosfere. Il sassofono e il theremin rappresentano il concreto tentativo di fuga dalla tradizione.
Il disco si apre con una preghiera laica, Heaven, sfacciatamente sporcata dalla torva vocalità blues della cantautrice, così vicina a Nico. Nessun riferimento reale alla religione, a detta della stessa Cummings, solo un modo per definire qualcosa di bello che sfugge alle coordinate del conoscibile. Il piano è il protagonista di Dreams: unaballad intensa che si pone interrogativi irrisolti (“Are you tired? / Are your eyes heavy? / Are you drifting off to sleep? / Do you miss your mother while you dream?”). La tradizione folk non sparisce, tuttavia, è un elemento costitutivo del dna della songwriter che si manifesta nella simbolica Up In Flames, così pregna della lezione di Cash e Van Zandt, negli arpeggi accennati di Here Is The Rose e nelle linee armoniche di Two Little Birds.
Il reale punto di rottura, però, è dato dagli ultimi due pezzi: Storm Queen con la sua anima sghemba accentuata dalle incursioni febbrili del sassofono altezza Morphine, e Fly A Kite: una malinconica chiusura impreziosita dalle fluttuazioni sonore del theremin.
Questo secondo capitolo della carriera artistica dell’australiana ci dice che la parabola è in fase ascendente: ci sono delle idee e c’è una concreta volontà di emanciparsi dalla secolare tradizione cantautorale. Ripartire dai classici non vuol dire per forza appiattirsi su quella linea, significa anche introiettare il messaggio per poi plasmarlo secondo le proprie inclinazioni artistiche ed emotive. Questo Grace lo sa. Speriamo non se lo dimentichi nel prossimo futuro.
(2022, ATO)
01 Heaven
02 Always New Days Always
03 Dreams
04 Up In Flames
05 Freak
06 Here Is The Rose
07 Raglan
08 Two Little Birds
09 This Day In May
10 Storm Queen
11 Fly A Kite
IN BREVE: 3,5/5