Chi fa parte di una band e va alla ricerca di ingaggi saprà di certo che in questo momento chi propone inediti fa fatica a suonare nei pub senza un largo, dimostrabile seguito; stessa sorte hanno le cosiddette cover band, ovverosia quelle che propongono un repertorio di pezzi di altre band già famose (che poi è ciò che facevano anche Beatles e Stones): fammi vedere quanti follower hai e ti dirò se suonerai. Il business, quello serio, sta nelle tribute: band che propongono l’intero repertorio di altre band, che si conciano come quella band e ne ripropongono persino il guardaroba e le acconciature, nonché, ovviamente, la strumentazione, necessaria a conferire la sensazione di autenticità dell’imitazione. Ora, non sappiamo se capiterà mai, da qui alla fine dei loro giorni, di leggere una recensione, un trafiletto, un articolo, un’intervista dedicata al giovane gruppo di esordienti del Michigan senza che vengano contemporaneamente citati i Led Zeppelin, ma se ciò dovesse accadere sarebbe una recensione, un trafiletto, un articolo, un’intervista alquanto incompleta.
I gemelli Jake e John Kiszka hanno sinora giocato a fare Plant e Page dal vivo in giro per l’America con successo invidiabile – nonostante siano nati due anni dopo la reunion del 1994 delle due leggende del rock – e su disco, accompagnati dal fratello Sam al basso e tastiere (vedi tu le coincidenze: come John Paul Jones) e dal batterista Danny Wagner, non sembrano volersi scrollare di dosso nessun paragone, probabilmente per il medesimo motivo per cui le tribute band oggi come oggi raccolgono molti più ingaggi di quanto ci si potrebbe aspettare.
Anzi, ci sguazzano nella citazione: la “land of ice and cold” citata nella introduttiva Age Of Man non è una coincidenza, come non lo è il sitar di Watching Over, come non lo sono il “ma-ma-ma-ma” e il “uh yeah!” di The Cold Wind, o il “looooooooooo-ver” (curiosamente reminiscente del “looooooooooo-rd” di “Whole Lotta Love”, curiosamente seguito da tre stacchi di batteria prima del nuovo verso che potrebbero sovrapporsi agli stacchi di quest’ultima in maniera impeccabile), e potremmo continuare ancora a lungo, dato che l’intero disco è una continua sequela di questi piccoli ammiccamenti (imbarazzante, ad esempio, la struttura di You’re The One per quanto simile a “Your Time Is Gonna Come”).
Esisteva un tempo in cui sentirsi dire di somigliare a qualcun altro veniva considerata un’offesa: non troppo tempo fa Jason Kay dava in escandescenze per essere stato considerato vocalmente simile a nientedimeno che sua maestà (e suo idolo, peraltro) Stevie Wonder, ma oggi, nell’era di X Factor, American Idol e Busto Arsizio’s Got Talent, evidentemente è un grande pregio, se non altro da un punto di vista commerciale, ché col rock non si vende più un cazzo.
Il punto è che John non sarà mai bravo quanto Robert Plant a fare Robert Plant, né Jake sarà mai bravo a fare Page quanto Page (senza volere infierire sulla sezione ritmica, assolutamente non in grado di reggere gli zeppelinismi qui abbondanti) e il costante, interminabile, insostenibile ammiccamento rende quasi inservibile la scrittura, che passa in secondo piano, se non in terzo. Parliamo di ragazzi estremamente giovani, che potrebbero usare questo trampolino di lancio (un trampolino importantissimo: tante radio, riviste e webzine stanno propagando il verbo dei giovani Greta Van Fleet) come Jack White ha usato la gimmick del “marito-moglie senza basso in rosso e bianco” per ritagliarsi una carriera che altrimenti sarebbe stata dura e probabilmente meno ricca di soddisfazioni in vent’anni rispetto a quelle che hanno avuto adesso.
Ma ciò non toglie che The New Day non è una buona canzone, Brave New World non è una buona canzone, è roba mediocre che probabilmente gli frutterà un bel po’ di danari, ma non è buona musica, neanche un po’; è roba ascoltabile un paio di volte, dignitosa ma scritta in maniera estremamente elementare, ricca di cliché visti e rivisti un milione di volte, dato che saremmo anche nel cazzo di 2018.
E ci sentiamo di dire che l’applicare il concetto di tribute band alla scrittura dei propri inediti è un’attività rischiosa che, come X Factor, garantisce l’immediato ma rischia di annoiare gli stessi che adesso si esaltano per le gesta narrate in Anthem Of The Peaceful Army quando il giochetto sarà stato ripetuto una volta di troppo.
La band si regge chiaramente sul chitarrista Jake Kiszka, che macina riff più come Malcom Young che come il leggendario chitarrista di Hounslow, mentre il plantismo del gemello John stanca perché evidentemente faticoso: l’angelica e infernale voce di Plant raggiungeva, con facilità imbarazzante, vette altissime, vette alle quali il giovane cantante del Michigan arriva con fatica, mentre risulta più gradevole quando propone una propria interpretazione del concetto di “rock epico” (come nella già citata Age Of Man). E, ancora, è anche questa forzatura sull’epicità, tipica del periodo “Physical Graffiti”, che appesantisce immotivatamente un esordio che avrebbe potuto essere leggero, personale ed esplosivo. E invece è ‘na palla, che poi alla fine della fiera è la cosa che rileva più di ogni possibile paragone.
(2018, Lava / Republic)
01 Age Of Man
02 The Cold Wind
03 When The Curtain Falls
04 Watching Over
05 Lover, Leaver
06 You’re The One
07 The New Day
08 Mountain Of The Sun
09 Brave New World
10 Anthem
11 Lover, Leaver (Taker, Believer)
IN BREVE: 2,5/5