Metti un giorno, decidi di fare un viaggio. Posto finestrino, cuffie nelle orecchie, iniziano a passarti davanti l’asfalto, gli alberi, la luce che filtra attraverso le foglie e i rami. Incontri l’alba, i tuoi desideri inespressi, ogni cosa che hai costruito, e poi il crepuscolo, i tormenti e tutto ciò che invece è andato distrutto.
Ma c’è chi riesce sempre, puntualmente, a “dipingerle le cose in rovina”, e se quel viaggio hai deciso di farlo ad Agosto, magari il 18, è stata la scelta ideale per vagare in luoghi interiori e per aprire la mente ad atmosfere formidabili, perché nelle cuffie non può che esserci stato Painted Ruins. Ci sono voluti ben cinque anni perché i Grizzly Bear pubblicassero il loro nuovo lavoro. Ancora una volta un ritorno ambizioso, anticipato dall’uscita di Three Rings che ci proietta da subito nella loro orbita fatta di effetti sonori che enfatizzano vocalità anni ’60, distorsioni, elettronica, musicalità folk, barocche, giochi vocalici e ritmi sonori a volte estatici a volte dimessi. Ancora una volta non deludono le aspettative.
Tutto parla quando si tratta della loro musica. Partendo dalle copertine degli album: i tratti neri, rigidi, poco definiti di “Horn Of Plenty”, delineavano una dimensione ancora poco chiara; la luce di “Yellow House” giocava invece in modo preciso in un ambiente familiare, “di casa”, personale. Uno stile e delle sonorità oramai proprie che hanno reso impeccabili i lavori successivi della band. Per giungere a “Painted Ruins” dove da una pennellata rossa, apparentemente monocromatica, si propagano striature dalle tonalità calde e profonde. Non si mischiano tra loro quei colori, sono definiti, ma visti da una diversa prospettiva si compattano creando sfumature che attraversano quelle rovine permettendo all’ascoltatore di fissarle interiormente, secondo la propria esperienza. Droste, infatti, citando Björk, afferma: “Everything that you’ve experienced affects your emotional landscape”.
Così come l’album, dall’espressione sonora chiara, distintiva, nel quale però ogni singolo brano ha delle caratteristiche proprie che unendosi tessono trame dagli scenari inconfondibili. Come suggerisce l’andamento del primo brano, Wasted Acres, e il testo di Cut-Out, gran parte dell’album si muove “slowly”, dando risalto a pezzi che appaiono musicalmente allegri, freschi, ma che nascondono in realtà un retrogusto disincantato e scettico, come Mourning Sound (“I made a mistake, I should have never tried”).
Alcuni brani sono da ascoltare sicuramente più volte per poterli definire e comprendere. Tutti, però, dal carisma indiscusso. Ma è anche quello l’intento della band: suscitare confusione e stupore allo stesso tempo. “It’s chaos, but it works”, canta Rossen in Four Cypresses. Occupano senza dubbio un posto d’onore Neighbors e Sky Took Hold, per un finale che affascina e coinvolge riservando all’ascoltatore inquietudine e profonda bellezza.
C’è chi sottolinea la mancanza di pezzi dallo spirito di “Two Weeks” e c’è chi continua ad affermare che “Yellow House” non abbia rivali. Morale? È improbabile essere categorici quando si parla di una serie di lavori eccellenti ognuno per la propria essenza singolare e incomparabile. Un consiglio: bisogna solo premere play.
(2017, RCA)
01 Wasted Acres
02 Mourning Sound
03 Four Cypresses
04 Three Rings
05 Losing All Sense
06 Aquarian
07 Cut-Out
08 Glass Hillside
09 Neighbors
10 Systole
11 Sky Took Hold
IN BREVE: 4/5