E’ impensabile che si riesca ad ascoltare tutta la musica in cui la sorte ci fa incappare. Il fatto è, per quanto sia frustrante ammetterlo, che è tanta, proprio troppa. Spesso allora il discrimine tra ciò a cui daremo almeno un orecchio e ciò a cui verrà negato persino il beneficio del dubbio è stabilito sulla base di quanto riescono ad accattivarci il nome di una band, il titolo di un album, o, perché no, anche un progetto grafico. Appurato che Hjaltalin già di per sé non è un nome particolarmente seducente, ecco che intitolare un disco Enter 4 – dizione che, richiamando le teorie fisico-matematiche sull’esistenza di una quarta dimensione, sa pericolosamente di nerditudine – e corredarlo di una copertina di tale e tanto notevole impatto antiestetico – dicasi pure brutta – non è precisamente un invito a nozze.
Per gli impavidi che comunque non si lasceranno scoraggiare dalle apparenze, la ricompensa sarà ricca. E la sorpresa addirittura maggiore per chi gli Hjaltalin già li conosce. L’ultimo cimento in ordine di tempo per l’affollata band islandese capitanata da Hogni Egilsson, giovin vichingo che alcuni avranno potuto apprezzare lo scorso anno come vocalist nello splendido “Arabian Horse” dei santi patroni dell’elettronica di lassù, i GusGus, è infatti un album molto diverso dai due precedenti. Maturo, finalmente. Niente più farfalle, valli di zucchero ed innamorati teneramente allacciati. Addio alle musiche da film senza un film a cui fare da cornice e alle atmosfere oltremodo trasognate del pur ottimo debutto “Sleepdrunk Season”.
Basta con le strizzatine d’occhio a Broadway e i richiami alla discomusic presenti nel secondo lavoro, “Terminal”. Non che la cifra distintiva, marcatamente sinfonica, sia andata persa. E’ stata coltivata con cura ed ora, piuttosto, viene impiegata con elegante oculatezza. Violini, pianoforte e fiati non mancano (come evidente nell’orchestrale On The Peninsula), ma la presenza più incisiva del basso e un pizzico di elettronica (Myself ne è un ottima prova) riescono a creare un’inedita atmosfera di intimità. Un chamber pop personale, minimalista. Due voci, quella deliziosamente calda e potente del frontman e quella cristallina, precisissima, di Sigridur Thorlacius, si alternano (è il caso del primo singolo estratto, Lucifer/He Felt Like A Woman), si fondono e poi si districano, a tratti suadenti (nella garbata Forever Someone Else), a tratti dolorosamente consapevoli (e qui merita una menzione We, già testata con successo nell’ultimo tour). E’ di nuovo un inno all’amore. Ma, e qui sta la novità, a quello infelice. Non ricambiato, eppure ancora invocato (nei toni delicatamente dolenti di Ethereal, ad esempio). Tentazione irresistibile, condanna spietata dei sensi e della mente (ecco allora Letter To[…], forse il brano migliore del lavoro).
Mai un album degli Hjaltalin fu tanto fisico. Merito senza dubbio dell’incursione di Egilsson nel mondo delle distorsioni torbide e sensuali dei GusGus, merito più in generale di una sensibilità artistica nuova, più sintetica, meno arzigogolata, ripulita dagli orpelli superflui e dai fraseggi stucchevoli. Musica dalle luci soffuse, fatta di corpi che si percepiscono ( come in I Feel You, titolo già di per sé eloquente), si sfiorano, ma non si appartengono mai. Materia accuratamente intessuta di desiderio e mancanza. Questa è roba da professionisti, da musicisti ormai divenuti adulti che fanno sul serio. Lo fanno per bene.
(2012, Hjaltalin)
01 Lucifer/He Felt Like a Woman
02 Forever Someone Else
03 I Feel You
04 Crack In A Stone
05 On The Peninsula
06 Letter To […]
07 Myself
08 We
09 Ethereal