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Holy Motors – Horse

Chissà se questa volta il mondo della musica si accorgerà della bravura di questo gruppo. Certo, il primo LP degli Holy Motors (“Slow Sundown” del 2018) qualche attenzione da parte degli appassionati l’aveva ottenuta. Il gruppo ha girato gli Stati Uniti, ha suonato al SXSW e come spalla dei Low, attirando l’attenzione di un guru come Anton Newcombe che ha ospitato questi ragazzi per una sessione di registrazione presso i suoi studio a Berlino. Però ad oggi gli Holy Motors sono rimasti de facto un gruppo destinato a una platea di pochi affezionati.

La mission di questo secondo breve LP – solo otto canzoni in totale – è quindi quella di aprire a un pubblico più vasto, senza tuttavia tradire i contenuti di un progetto musicale che vuole essere eccentrico e misterioso, che si è voluto autodefinire sin dal proprio debutto come se fosse un gruppo uscito fuori da un film inesistente. Ma questa non è l’unica suggestione particolare, se ci aggiungiamo la provenienza geografica da Tallin, Estonia e il richiamo nel nome (il primo nome del gruppo era però Heavenly Motors) al film super-cult del 2012 diretto da Leos Carax, che di per sé contiene già una sequela di immagini e di contenuti dal potenziale gigantesco.

Horse esce sempre per la newyorkese Wharf Cat Records. Ideale seguito di “Slow Sundown”, il disco ne riprende le ambientazioni americana e la contestualizzazione di tipo cinematografico, tutta devozione a un patrimonio a stelle e strisce che affonda le radici negli anni Sessanta e si continua a sviluppare fino ai giorni nostri. È un immaginario sicuramente “pop”, quel lato degli Stati Uniti d’America che ci piace e che ha in qualche maniera segnato il secolo precedente, che ha cambiato il corso della storia e che mette assieme tutte le forme d’arte.

Ne consegue che non parliamo solo di musica quando parliamo di questo disco, che comunque in campo musicale possiamo considerare prossimo a riferimenti che vanno dalle ballad dream pop di Stephin Merritt e Mazzy Star (Country Church, Road Stars), quelle folk americana di Miranda Lee Richards (Come On, Slowly), dallo shoegaze degli Slowdive (Matador) alla idolatria Brian Jonestown Massacre (Trouble, Life Valley).

Tra i guest dell’album c’è Craig Dyer degli Undergound Youth, gruppo con cui ci sono sicuramente affinità per l’accentazione psichedelica del suono e le sfumature noir che, messe assieme a uno stile ed eleganza à la John Parish, danno vita a un complesso di canzoni che costituiscono un format uniforme molto seducente e allo stesso tempo ammaliante. Roba da incantatori di serpenti. Impossibile resistere a un disco così bello.

(2020, Wharf Cat)

01 Country Church
02 Endless Night
03 Midnight Cowboy
04 Road Stars
05 Matador
06 Come On, Slowly
07 Trouble
08 Life Valley (So Many Miles Away)

IN BREVE: 4/5

Emiliano D'Aniello
Sono nato nel 1984. Internazionalista, socialista, democratico, sostenitore dei diritti civili. Ho una particolare devozione per Anton Newcombe e i Brian Jonestown Massacre. Scrivo, ho un mio progetto musicale e prima o poi finirò qualche cosa da lasciare ai posteri. Amo la fantascienza e la storia dell'evoluzione del genere umano. Tifo Inter.