L’heavy metal è principalmente questione attitudine. Forse non quanto altre forme musicali, per cui le tematiche di fondo (specie se culturali) sono motore di quasi tutta la creazione sonora, ma anche il mondo metallico, soprattutto nei suoi sottogeneri più caratteristici, senza una buona dose di attitudine non avrebbe potuto esprimere tutta la sua essenza. Pur non volendo toccare temi controversi in cui l’inclinazione estrema è arrivata a esprimersi nel peggior modo possibile (vedi la “black metal mafia” dei primi anni ’90 in Norvegia), trovo estremamente corretto che la musica possa esternare concetti e sensazioni attraverso tutte le componenti che ne identificano la natura, che siano le atmosfere piuttosto che gli atteggiamenti pubblici o ancora meglio i testi delle composizioni.
Non c’è dunque da stupirsi se una delle tematiche principali tra quelle affrontate nel mondo metallico sia quella relativa alla religione e come la stessa abbia condizionato le masse lungo il corso della storia. Tema rilevante e di indubbio interesse, così che anche gli statunitensi Ilsa han voluto esternare il proprio punto di vista nel nuovissimo Preyer, ovviamente in modo personale e quindi condendo il tutto con un bombardamento di death/sludge di pregevole fattura. I ragazzi di Washington D.C. sono ormai sulla scena da molto tempo, era il 2009 quando usciva il seppur acerbo “The Maggots Are Hungry” ad apertura di un percorso che li ha visti partorire ben sei album in un decennio. Un ruolino di marcia considerevole.
“Preyer” è un disco schietto e che non scende a compromessi, esattamente come chi l’ha composto: la denuncia sociale parte sin dall’intro in cui è la voce del serial killer Sean Sellers, folle satanista successivamente convertito al cattolicesimo, a indirizzare il concetto del lavoro contro l’ambigua teocrazia cattolica con le sue perversioni e immoralità. E se il tema è di spessore non indifferente, la musica si fa coerente accompagnatrice. Gli Ilsa proseguono il loro processo di maturazione senza rinnegare alcunché del passato, ma anzi sviluppando quelle che sono le caratteristiche più ispirate del quintetto. La matrice crust-punk e hardcore che ne caratterizzava gli esordi è ancora ben presente (il singolo Shibboleth ne è un buon esempio) ma limata dal tempo e dall’esperienza. Meno sfuriate incontrollate e più mid-tempo (Moonflower, Mother Of God) a scandire i ritmi di un lavoro quadrato e ordinato che beneficia inoltre di una ottima produzione, uno degli aspetti più positivi di questo platter, proseguendo sul livello qualitativo già ascoltato nel più oscuro e “doomy” predecessore (“Corpse Fortress”, 2018): rotonda e profonda, avvolgente ma grezza, sicuramente un plus.
Rimane però un problema di fondo che non permette purtroppo a questo “Preyer” di diventare un top album, la ripetitività e la troppa uniformità lungo tutto il lavoro rendono l’ascolto sì lineare e scorrevole, ma non consentono al platter di lasciare davvero il segno limitandone la longevità a giusto qualche ascolto sporadico. Un po’ come tutta la carriera degli Ilsa, più che rispettabile seppure monotona, anche “Preyer” non è da meno. Un buon lavoro che potrà anche far felice qualche appassionato di sludge ma che esaurisce troppo presto la propria carica in una raccolta di brani che alla fine si somigliano un po’ tutti senza che alcuno si elevi particolarmente. Un discreto LP ma che ritroveremo con difficoltà nelle classifiche finali di questo 2020.
(2020, Relapse)
01 Epigraph
02 Poor Devil
03 Moonflower
04 Shibboleth
05 Mother Of God
06 Scavengers
07 Widdershins
08 Preyer
09 Lady Diamond
10 Behind The Veil
11 The Square Coliseum
IN BREVE: 3/5