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In Flames – I, The Mask

Ciclicamente gli In Flames si trovano, nel periodo tra l’annuncio di una nuova uscita e l’effettiva release, nella migliore situazione possibile. Che si mantenga un livello qualitativo mediocre o che si stupisca nuovamente il mondo con qualcosa di incredibile, i cinque di Gothenburg hanno e sempre avranno la certezza di scalare le classifiche (per lo meno in Nord Europa), complice soprattutto una fan base che nei lustri evolve e muta con la stessa velocità con cui lo fanno le strofe delle loro canzoni.

Non che ci si aspetti molto dagli In Flames attuali; sembrano ormai distanti i secoli in cui assieme a Dark Tranquillity e At The Gates facevano il bello e cattivo tempo del metal sound di quello che tuttora viene reputato come il decennio più sfortunato per la musica heavy, gli anni ’90. Ma mentre la maturazione delle band cugine ha seguito (tra alti e bassi) un iter più comprensibile, Anders Fridén e soci hanno da quasi vent’anni abbracciato, con le dovute critiche da parte della cricca conservatrice, sonorità “moderne” e modaiole spesso e volentieri avvicinabili a un ben più americano metalcore.

Con I, The Mask si stia pure tranquilli, la musica non cambia. C’è tutto quanto ascoltato negli ultimi lustri con una componente originale quasi nulla, tanti difetti ben radicati principalmente nel processo di songwriting e alcune (poche) qualità positive che fortunatamente non si sono perse nel corso del tempo. Per carità, non tutto è banale e noioso. Burn è un pezzo dalla carica decisa e coinvolge dalla prima all’ultima nota con una cattiveria quasi imprevedibile. Call My Name ci accompagna verso un chorus discreto per mezzo di alcuni dei migliori riff che Gelotte abbia recentemente composto. Discorso similare per la title track e per la opener Voices, brani scorrevoli che fanno del lavoro chitarristico il loro punto di forza principale.

Purtroppo è tutto il resto del platter che identifica gli In Flames di oggi come una scontata band di metal melodico, e per giunta nemmeno molto ispirata. We Will Remember è una lagna degna di una qualsiasi band adolescenziale della costa californiana, la successiva In This Life è ancora peggio e forse uno dei brani più brutti della loro discografia. Deep Inside ci delizia di un ottimo riff ma dopo il primo minuto si rivela debole e scontato. Le due ballad Follow Me e Stay With Me (che fantasia!) non sarebbero neanche così male se non fosse che risultano chiara espressione di tutto il disco: sconclusionate e altalenanti tra alcune componenti azzeccate e altre per nulla accettabili; su tutte la voce di Fridén che ci si aspetterebbe carica di personalità ma invece risulta quasi puerile (a quarantacinque anni…).

“Same old shit”, dunque. Complice la buona chitarra, che per fortuna è ben presente e regge la baracca, questo disco si merita un paio di ascolti, ma nulla di più. Mi riprometto sempre, quando si tratta di In Flames, di lasciar da parte qualsiasi pensiero soggettivo e valutare razionalmente sia l’insieme che le singole componenti. Puntualmente fallisco e mi lascio condizionare fin troppo da quella che è la mia idea di musica di qualità, che certamente non contempla band storiche che si accontentano del compitino. Peraltro nemmeno eseguito bene.

(2019, Nuclear Blast)

01 Voices
02 I, The Mask
03 Call My Name
04 I Am Above
05 Follow Me
06 (This Is Our) House
07 We Will Remember
08 In This Life
09 Burn
10 Deep Inside
11 All The Pain
12 Stay With Me

IN BREVE: 2/5

Da sempre convinto che sia il metallo fuso a scorrere nelle sue vene, vive la sua esistenza tra ufficio, videogames, motociclette e occhiali da sole. Piemontese convinto, ama la sua barba più di se stesso. Motto: la vita è troppo breve per ascoltare brutta musica.

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