Sono senza dubbio uno degli astri più luminosi tra i nuovi avvistati di recente nel firmamento del progressive rock/metal europeo. Dalle nostre parti ancora in pochi ne parlano con cognizione di causa ma è innegabile che gli Indukti ci sappiano fare sul serio. Il fatto che escano poi per Inside Out, etichetta di spicco del genere, è già un elemento da non prendere sotto gamba. Discendenti pregiati della migliore tradizione prog albionica e statunitense, con King Crimson e Tool nomi spesso – almeno stando all’esordio – a loro accostati, i cinque musicisti provenienti dalla Polonia danno un degno seguito all’ottima prova primogenita “S.U.S.A.R.”, uscita ben cinque anni fa. Se la materia primordiale non ha perso nessuna delle sue peculiarità fenotipiche constando sempre di particolari modulazioni armoniche che, tra l’altro, rimarcano l’ambiente musicale tradizionale della Polonia, loro paese di provenienza, gli Indukti, in questo lasso di tempo piuttosto lungo per gli attuali cicli di vita discografici, hanno accresciuto la propria massa muscolare sfoderando dalla manica assi forgiati negli altiforni del metal. C’è perizia tecnica notevole e classe cristallina, con precisione mirabile nelle costruzioni e negli schemi di svolgimento, che includono il non semplice artificio del tema espanso. Il violino di Ewa Jablonska dona sfumature arcane e vena una corazza robusta accennando ad atmosfere in cui la psichedelia non è una remota foce. Coi Tool è rimasto, come unico contatto, la performance vocale in Nemesis Voices di uno dei tre ospiti che si avvicendano al microfono, Michael Luginbuhel (di casa nei Prisma). Per il resto gli Indukti hanno sviluppato un sound abbastanza personale e facilmente riconoscibile. Persino gli stereogrammi tipicamente kingcrimsoniani si sono allontanati in virtù di una possanza prog-metal che in Indukted (che percuote i nervi allo spasimo con un riffing terzinato contrappuntato da una doppia cassa tellurica) ed Aemaet sfoga ogni isterismo. C’è qualcosa di O.S.I. e Fates Warning che non si può di certo non evidenziare però. La chicca sta nella comparsata di Nils Frykdahl, demoniaca voce degli strepitosi Sleepytime Gorilla Museum, band alla quale gli Indukti strizzano l’occhio: il singer piaga con fuoco e zolfo Tusan Homichi Tuvota, labirintico districarsi di variazioni ritmiche che accolgono persino stridori cari al mondo del math-core. Maciej Taff dei Rootwater è invece chiamato a scartavetrarsi le corde vocali nell’impressionante…And Who’s The God Now?, altalena di pulsazioni tribali e violenza urbana dalla sintomatologia catastrofica. A fornire la prova del nove in merito alla classe degli Indukti è Ninth Wave, capitolo conclusivo di un album con picchi quasi entusiasmanti: compendio di tutte le sfaccettate facce dell’anima del gruppo, tra echi pinkfloydiani, risalite nel magma metallico, lievi fumate jazz con una tromba con sordina e avvicinamenti persino alla bossanova, il tutto in oltre undici minuti che tengono seriamente col fiato sospeso l’ascoltatore. Prova di grande maturità, di crescita interiore e non solo, questo Idmen supera le migliori aspettative. Non è obiettivamente facile tenere in piedi un discorso tanto complicato per un’ora senza battute d’arresto e tenendo i nervi sempre tesi. Non sono solo i dettagli tecnici a declamare la bravura degli Indukti ma anche – e diremmo soprattutto – la capacità di condensare in note emozioni spaesanti e contrastanti. Esiste qui dentro qualcosa che rifugge i semplici ambiti musicali. Secondo il nostro modo di vedere, questa la si chiama arte.
(2009, Inside Out)
01 Sansara
02 Tusan Homichi Tuvota
03 Sunken Bell
04 …And Who’s The God Now?
05 Indukted
06 Aemaet
07 Nemesis Voices
08 Ninth Wave
A cura di Marco Giarratana