Non si dovrebbe mai scherzare con l’aldilà perché potrebbe ritorcersi contro. La lezione è questa se vediamo il destino di tutte le band della cosiddetta new wave revival: un laboratorio di cera che a inizio millennio sfornava statue wave per il Madame Tussaud’s del rock. Una specie di cimitero pieno di spettri del passato. In principio fu il boom: le stampe antiche degli Editors, il pop nevrotico e iconografico dei Franz Ferdinand, i neon intermittenti dei Bloc Party, le luci malsane degli Interpol. La revival ripeteva a memoria la poesia decadente che avevano scritto i loro genitori negli anni ‘80. Ma si sa, quando usi la carta carbone per più di una volta questa si logora, e così questi figli del nero iniziarono a perdere colpi, cercando poi, goffamente, di rinnegare i genitori, ottenendo un risultato spesso mediocre. Ma veniamo agli Interpol, il loro percorso è un continuo accendi-spegni di luci ora brillanti, ora opache. Se nel 2002 “Turn On The Bright Lights” era appunto la seduta spiritica che invocava lo spettro della new wave, “Antics”, “Our Love To Admire” sono stati il tentativo di risbattere quel fantasma dentro la tavola ouija da cui aveva dettato i suoi messaggi. Se è questo il destino degli Interpol (cercare l’oscurità, rigettare l’oscurità), il nuovo disco è forse l’inizio di una nuova vita lontana dalla logica chiaroscura. Interpol (o s/t , dipende) è sì buio, è certamente un bagno di umori neri, ma è forse il primo disco dei newyorkesi dove questa oscurità è vera, fatta in casa, senza invocazioni o voci dall’aldilà. Paul Banks e compagni scrivono dieci canzoni imbevute di vuoti, delusioni, abbagli, stagioni che cambiano e lo fanno con la “penna” di uno scrittore finalmente maturo. Dieci canzoni elettriche, cupe, tagliuzzate dal tempo. Un pezzo come Memory Serves è la notte che sfonda le pareti con tutta la forza del passato, Lights richiama gli spiragli che offre il futuro, Summer Well trascina con sé tutti gli strascichi nel presente, The Undoing fa vibrare la bilancia di vittorie e sconfitte. “Interpol” è un disco cui sintonizzare certi sudori di fine estate, quelli ghiacciati delle giornate con pochissimo sole, le lacrime? “Non ce ne sono più da piangere” (da Barricade). Dunque non c’è nulla del romanticismo e dell’inquietudine della new wave, Manchester è lontanissima perché ovviamente naif. Qui gli Interpol suonano solo se stessi, le difficoltà moderne, i dolori autentici, riponendo nello scaffale l’almanacco del rock, smettendo di accendere/spegnere “le luci brillanti” a mo’ di inno o rigetto di una stagione musicale che non c’è più.
Nota: Carlos D. registra l’ultimo gettone. Nei concerti di promozione di “Interpol” a sostituirlo al basso è stato David Pajo (Slint, Tortoise, Papa M).
(2010, Matador)
01 Success
02 Memory Serves
03 Summer Well
04 Lights
05 Barricade
06 Always Malaise (The Man I Am)
07 Safe Without
08 Try It On
09 All Of The Ways
10 The Undoing
A cura di Riccardo Marra