Era da tanto tempo che non si sentiva di una strategia di marketing così particolare a supporto dell’uscita di un album. L’ultima memorabile è forse la disastrosa strategia che ha accompagnato l’uscita di “Songs of Innocence” degli U2, e cioè il download automatico sui dispositivi di 500 milioni di utenti iTunes (“but the whole point is we’re trying to get people to pay for music”, obiettò a Bono l’allora e tutt’ora amministratore delegato di Apple Tim Cook); una straordinaria strategia che incrementò notevolmente il numero di persone – già cospicuo – che vorrebbe accarezzare dolcemente il fondoschiena del frontman della band irlandese con una scarpa, meglio se con la punta rinforzata come le Cult in voga negli anni ’90. La più celebrata: il rilascio con la modalità pay-what-you-want di “In Rainbows” dei Radiohead nel 2007, che consentiva di scaricare in anteprima l’album della band di Oxford in formato mp3, pagando ciò che si riteneva giusto (quindi anche £0), dimostrando che ci si poteva fidare dei fan che, ricambiando, comprarono l’album in massa mandandolo in testa alla classifica nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Francia…
Oggi, la gratuità dell’album è data per scontata, il suo acquisto fisico un’attività per feticisti, che infatti preferiscono i vinili ai CD: belli da mostrare, con la copertina da poter mettere in bella vista nelle storie Instagram accanto al giradischi, la qualità dell’ascolto da vantare con i plebei che ascoltano su Spotify. Va da sé che le strategie di marketing non siano più volte a vendere alcunché, ma principalmente a farsi notare: darsi fuoco al parco e correre nudi per il Sunset Strip sarebbe una strategia senz’altro più efficace per l’economia dei meme e clickbait che alimenta il disturbo dell’attenzione elevato a modo di fruizione dei contenuti che è diventata la nostra esistenza, rispetto a quanto il signor John Anthony Gillis – frolloccone pallido alto due metri che abbiamo imparato a conoscere ed amare col nome di Jack White – ha pensato per il suo No Name.
Con la sua Third Man Records, il 19 Luglio White ha deciso di regalare, con ogni acquisto nei negozi dell’etichetta, un misterioso vinile bianco, senza nomi delle tracce né dell’artista: “No Name”, per l’appunto. Si dà il caso che questo regalino non solo sia il primo album di White dopo “Entering Heaven Alive” del 2022, ma sia anche il tanto atteso album 100% rock’n’roll dell’artista di Detroit, che, da “Get Behind Me Satan” (2005), prova — con alterne ma fondamentalmente positive fortune — a contaminare, esplorare, variare, sporcare, pulire e cambiare la sua musica.
Si evince immediatamente da Old Scratch Blues, prima traccia dell’album, che White, senza annunci ricolmi di banalità spesso inflitti al pubblico da suoi colleghi, abbia smantellato per “No Name” ogni concessione fatta negli anni a generi alieni o Pro Tools; riparte da “Elephant” (2003) con la furia di un ventenne ma la maturità dei suoi ormai quasi ciinquant’anni: nel suono di It’s Rough On Rats c’è l’amore di un ragazzo per i Led Zeppelin, la capacità di rielaborare gli stilemi che erano già vecchi di trent’anni quando li usava Page e farli suonare comunque freschi come una boccata di aria di montagna e un arrangiamento che parte dalla semplicità dei White Stripes ma sfrutta appieno una band tecnicamente capace di altro. Non a denigrare i contributi a quel suono della cara Meg White: Daru Jones (Nas, Esperanza Spaulding, Jovanotti) e Patrick Keeler (The Raconteurs, Afghan Whigs, Loretta Lynn), che si alternano dietro le pelli, pur essendo session man di grande esperienza, costruiscono sull’idea di semplicità di quella che fu la partner in crime del nostro e ad essa aggiungono dei dettagli, dei fill e dei ragionamenti sul suono, senza però mai allontanarsi troppo dalla strada che all’epoca fu segnata.
White canalizza le influenze dei maestri del blues, dei concittadini Stooges ed MC5 e soprattutto dei citati Led Zeppelin, sembrando posseduto dallo spirito di Page (pur in vita e in salute) in pezzi come Underground o intossicato dall’amato iguana in Morning At Midnight. Ed arrivati alla bellissima Terminal Archenemy Endling, che conclude i quarantatré minuti di “No Name”, si realizza che seppur nessuna delle uscite di White sia stata mai un passo falso e, anzi, alcune sono legittimamente definibili eccellenti – “Blunderbuss” del 2012 su tutte – questo Jack White ci era mancato a dismisura, e speriamo che il suo cammino su questa strada, per quanto non ne disdegniamo le deviazioni, prosegua ancora per tanto tempo.
2024 | Third Man
IN BREVE : 4,5/5