“I wanna live in a democracy / Somewhere where art is free”: questi sono i versi con cui inizia Freedom, uno dei brani contenuti in Classic Objects, sesto album di Jenny Hval. Manifesto politico che, sebbene non posto all’inizio del disco, sintetizza bene uno dei perni su cui si poggia la carriera della cantautrice norvegese. Libera di esprimere la propria visione dell’arte e della realtà in generale, la Hval non ha mai rinunciato ad adottare un linguaggio reale, anche crudo all’occorrenza, su cui ha costruito interi concept album – si pensi a “Blood Bitch”(2016)dove il reale e il soprannaturale sono in continua osmosi o ad “Apocalypse, Girl”(2015)in cui è centrale il discorso sul corpo e la sessualità liberato da qualsiasi influenza capitalistica.
La libertà delle forme è evidente anche sotto il profilo più precipuamente sonoro: la mescolanza di ambient, trip hop e noise dei primi dischi (“Viscera” del 2011 ed “Innocence Is Kinky” del 2013) la virata verso lidi più elettronici e dark dei già citati “Apocalypse, Girl” e “Blood Bitch”, fino all’approdo a quest’ibrido tra art pop e neo folk elettronico, algido e cangiante come il clima nordico, ne sono testimonianza. Fanno parte di questo flusso caleidoscopico anche i progetti paralleli che la Hval ha intrapreso con il chitarrista Håvard Volden: Nude Sand e Lost Girls, più sperimentali e meno etichettabili.
“Classic Objects”, però, è anche il primo disco che sancisce il passaggio alla 4AD, dopo i cinque dischi precedenti pubblicati con la Sacred Bones. La novità, però, non influenza l’estro della Hval, qui, anche complice il lockdown del 2020, al servizio di un discorso più intimo e legato alla propria quotidianità. Non mancano gli slanci surrealisti e metafisici, come nel caso degli scenari presenti sulla copertina del disco, opera dell’artista Annie Bielski.
Le coordinate sonore di questa sesta fatica sono molto più vicine all’art pop e al folk e strizzano l’occhio alla world music e a talune ritmiche afrobeat. I suoni sintetici che avevano permeato il predecessore, The Practice Of Love, sono qui relegati sullo sfondo e si manifestano sotto forma di avvolgenti spirali più vicine all’ambient che al synth-pop. È il caso di American Coffee sospesa tra organi eterei e il realismo dei testi della cantautrice scandinava.
La Hval piazza la perla del disco all’inizio: Year Of Love è una sintesi riuscita tra l’art pop e la world music, il cui potenziale innodico esplode pienamente nel ritornello trascinato dove l’artista prende atto, in maniera ironica, dei compromessi accettati, di recente, nella sua vita. La liquida Cemetery Of Splendour cerca di cogliere lo spleen dell’assenza derivante dalla morte di persone care; mentre Year Of Sky si adagia su un tappeto elettronico di synth che richiama sonorità care a Nils Frahm e ad Olafur Arnalds. Jupiter, invece, è folk cosmico à la Bjork incendiato da parentesi ambient e drone music. C’è anche spazio per le fugaci melodie orientaleggianti di Freedom, prima del pop eclettico del brano finale: The Revolution Will Not Be Owned.
Se una cosa si può riconoscere alla Hval è che anche in questo episodio della sua carriera non ha abdicato alla sperimentazione. Questa volta non ha avuto bisogno di inventarsi qualcosa ex novo, ha seguito le forme convenzionali del pop aprendole ad una dimensione cosmica ma allo stesso tempo intima. Insomma: istantanee di un futuro ancora da scrivere.
(2022, 4AD)
01 Year Of Love
02 American Coffee
03 Classic Objects
04 Cemetery Of Splendour
05 Year Of Sky
06 Jupiter
07 Freedom
08 The Revolution Will Not Be Owned
IN BREVE: 3,5/5