Al di là delle questioni emotive, delle budella che s’attorcigliano e dei ricordi di gioventù, chi ha visto all’opera i Jesus And Mary Chain nei recenti tour della reunion s’è reso perfettamente conto di come sul palco i fratelli Reid dimostrassero una certa stanca. Dovuta magari all’età non più verdissima, forse alla ripetizione pedissequa e ad oltranza di “Psychocandy” oppure al peso di essere padri di qualcosa senza esserlo mai veramente voluti essere.
Fatto sta che l’annuncio di questo Damage And Joy, disco d’inediti che mancava da “Munki” del 1998, non è che abbia fatto fare i salti di gioia ai fan della prima ora. Il rischio che quella stanchezza rilevata dal vivo potesse riversarsi anche nelle nuove composizioni era forte, e purtroppo è né più e né meno di ciò che è accaduto. L’album, piuttosto abbondante (ben quattordici le tracce contenute), presenta poche sorprese, spesso riletture di scarti e mezzi brani lasciati lì a macerare o scritti per altri progetti, il tutto impastato in un sound che è un po’ come un brevetto depositato alla Camera di Commercio: se ne conoscono per filo e per segno le caratteristiche tecniche, i concessionari, i termini di utilizzo e quant’altro.
Di quelle sferzate chitarristiche entrate nella leggenda non c’è che qualche flebile assaggio (vedi All Things Pass), quello dei Jesus And Mary Chain è piuttosto un ripartire esattamente da dove avevano interrotto il loro percorso diciannove anni fa, da quel “Munki” che aveva smussato definitivamente le asperità noise e shoegaze per mettere in primo piano le melodie. Non a caso, sono le ballate dal forte sapore sixties (Song For A Secret, Los Feliz, Can’t Stop The Rock) e i suoni sintetici (Amputation, War On Peace, Get On Home) a fare il bello e il cattivo tempo nel disco. Il risultato William e Jim lo portano a casa insieme alla batteria di Brian Young (già con loro dal vivo), al basso di Phil King dei Lush e soprattutto alla produzione e alla pazienza di Martin Glover aka Youth dei Killing Joke. Ma è un risultato striminzito, che tira l’ascoltatore per i capelli senza coinvolgerlo più di tanto.
Il tentativo di dare frizzantezza c’è con le collaborazioni al femminile, tutte voci che s’innestano bene negli incavi languorosi appositamente lasciati dai Reid nei vari brani: c’è un’altra scozzese DOC, Isobel Campbell (a suo agio in The Two Of Us e Song For A Secret), c’è la Sky Ferreira suggerita dall’amico Bobby Gillespie (all’opera in Black And Blues), ci sono la sorella minore Linda Reid aka Sister Vanilla e Bernadette Denning (nel singolo Always Sad). Tutte brave, tutte belle ma anche tutte uguali, causa l’appiattimento e il livellamento del loro apporto operato dalla cura Reid.
“Damage And Joy” quindi sa tanto di pretesto, di scusa per giustificare altri live cui avremmo tutti preso parte ugualmente anche senza i nuovi brani. Non è un album scarso, è un album (e non va tanto meglio) fondamentalmente poco ispirato, inutile nell’economia di una carriera che il mito lo aveva già creato pur non avendolo saputo o voluto coltivare negli anni. La speranza è che si tratti solo di un rientro faticoso, magari come quello dei Pixies con “Indie Cindy” riscattato un po’ con “Head Carrier”, e che il futuro ci riservi dunque qualcosa di meglio. Ma non siamo disposti a scommetterci grosse cifre.
(2017, Artificial Plastic / Warner)
01 Amputation
02 War On Peace
03 All Things Pass
04 Always Sad
05 Song For A Secret
06 The Two Of Us
07 Los Feliz (Blues And Greens)
08 Mood Rider
09 Presidici (Et Chapaquiditch)
10 Get On Home
11 Facing Up To The Facts
12 Simian Split
13 Black And Blues
14 Can’t Stop The Rock
IN BREVE: 2,5/5