Quella di Johnny Cash è una figura talmente carismatica che supera agilmente i confini dei generi musicali. Solo in questo modo può essere spiegato lo strano fenomeno che vede la più irruenta e focosa delle anime del country americano idolatrata anche da ascoltatori distanti anni luce dalla sua matrice sonora. I suoi colleghi coevi sono rimasti trincerati nelle loro nicchie, lui, invece, sarà stato per una vita costantemente percorsa sulla linea, o forse per qualche oscuro segreto insito nella sua produzione musicale, anche nelle sue manifestazioni più intransigenti e feroci, lui ha attecchito nelle preferenze di milioni di fans in tutto il mondo dai gusti più disparati. Ci risparmiamo l’ennesima e quanto mai superflua biografia dai toni agiografici, tentazione a cui cedono molti scribacchini a corto di idee quando si trovano al cospetto di colossi di grosso calibro. Ci limitiamo a riferire di questo sesto, e probabilmente ultimo capitolo di “American”, i tomi registrati insieme al produttore Rick Rubin e che fungono da testamento postumo, nonché da analisi, non soltanto musicale, ma più in profondità, strettamente umana del cantante natio di Kingsland. In “American VI” vengono abbracciate tutte le tematiche care alla poetica del tardo Cash, quella dell’uomo che sa di non aver più nulla da perdere o conquistare, provato dalla malattia e dall’infinito dolore causato dalla perdita dell’amatissima moglie June Carter (avvenuta, come i più sapranno, solo sette mesi prima della sua), un uomo spoglio e sanguinante nella sua nudità, che fa pubblica ammenda e che ricerca quasi in maniera ossessiva quel Dio che spesso è rimasto relegato ad un buio angolo. Non è un caso se l’unico brano autografo, come esplica in via molto evidente il titolo I Corinthians 15:55, contenga nel testo un estratto da una lettera di San Paolo, la prima ai Corinzi, e sottolinea il consapevole avvicinamento di Cash all’evento finale: “O death, where is thy sting? O grave, where is thy victory?”. Così come i precedenti volumi, gran parte del materiale incluso in American VI: Ain’t No Grave è un campionario di rivisitazioni bucoliche, a tratti molto toccanti, di composizioni d’altrui firma. Colpisce la revisione di Redemption Day di Sheryl Crow, ridotta ad uno scarnificato pastorale venato dalla voce indebolita ma nel contempo per niente doma di Cash, canzone addolcita da un bell’arrangiamento di tastiere nel sottobosco. Ain’t No Grave (l’originale è di Claude Ely) è graffiante nel suo incedere cadenzato e cupo; qualche raggio di luce filtra nella leggera malinconia di For The Good Times e I Don’t Hurt Anymore. C’è tempo per un’interpretazione di Aloha Oe di Elvis Presley, trasognato saluto su un atollo abbracciato dall’accecante luce solare. Non il capitolo migliore della saga “American”, non il capolavoro che fa calare il sipario, ma una dignitosa raccolta di canzoni che ribadiscono la fragile umanità di una delle figure più importanti della storia del rock mentre muoveva gli ultimi passi verso il gran finale.
(2010, American / Lost Highway)
01 Ain’t No Grave
02 Redemption Day
03 For The Good Times
04 I Corinthians 15:55
05 Can’t Help But Wonder Where I’m Bound
06 Satisfied Mind
07 I Don’t Hurt Anymore
08 Cool Water
09 Last Night I Had The Strangest Dream
10 Aloha Oe
A cura di Marco Giarratana