Che svariati frontman a un certo punto decidano di intraprendere, parallelamente o meno al percorso con la propria band, anche una carriera da solisti è ormai un dato di fatto. Jonathan Davis ci aveva avvisati qualche tempo fa di star lavorando al proprio progetto fin dal 2008, certezza che si è acclarata adesso con l’uscita di Black Labyrinth. Egocentrismo? No, non sembra affatto trattarsi di questo. Possibilità di raccontarsi? Di testi autobiografici dal 1993 ne ha scritti parecchi anche insieme ai Korn. Quello che invece si evince è l’idea di sperimentare e, a supporto di questa tesi, non dimentichiamo che Jonathan aveva già percorso questa strada con il progetto Jonathan Davis and the SFA e soprattutto attraverso i suoi alter ego JDevil e Killbot. L’elettronica, peraltro, pervade il suo nuovo lavoro.
Ad aprire e chiudere l’album due pezzi che si contrappongono per sonorità, testi e intenzionalità. Il luccichio delle chitarre che introduce Underneath My Skin, l’andamento del brano e l’urlo “Something dying, I will not give in!” sembrano apparentemente mostrarci un nuovo Jon, quasi speranzoso. Ma la dannazione fa parte di lui, del suo vissuto e inevitabilmente prende forma nei suoi testi. Da qui infatti è un’ascesa di lotte tra angeli e demoni, di rabbia contro un Dio che abbandona e uccide (Your God), della convinzione di camminare sempre sul lato oscuro (Walk On By) e di una felicità che non è mai permessa: ”It’s the same old situation”,canta in Happiness. Per concludersi con What It Is, singolo che segna l’inizio della carriera da solista di Jonathan. L‘estremo dell’album consapevole e sfiduciato attraverso il quale confida in una sola cosa: “Not to bring who I am to meet me”.
Evidente è l’impatto sia musicale che emozionale di alcuni pezzi, quanto indiscutibile e lampante è la prevedibilità di altri. Lineari, fin troppo musicali, con dinamiche e sonorità anticipabili facilmente ancora prima di ascoltarle. The Secret, bello, benfatto e diverso dal solito, stampo pop con sonorità elettroniche di fondo piacevoli. Se è vero che Jon ha pensato di scrivere un musical metal, alcune parti di questo pezzo sfiorano molto l’idea. I seguaci dei Korn probabilmente non apprezzeranno molto.
Ma ci sono comunque brani, come Everyone, che diventano un’ancora per il cantante e questa tipologia di pubblico. Suoni etnici ed elettronici risuonano per tutto l’album e in particolare in Final Days e Gender, la voce di Jonathan, con la sua durezza e con la presenza dei vari cambi tra i meccanismi vocali che vanno dal fry al growl, fino al falsetto, in ogni caso trasmette. E, a proposito di voce, vista l’influenza e l’utilizzo di sonorità inconsuete, sarebbe stato originale ed esaltante sentire qualche accenno di scat singing à la “Freak On A Leash”. Ma quello è un gusto personale.
Forse la notizia data pochi giorni prima dell’uscita di “Black Labyrinth”, secondo cui la scrittura dei brani del prossimo album della band sarebbe invece stata affidata ad autori esterni, avrà destabilizzato i fan più affezionati dei Korn, ma fortunatamente è stata smentita. E forse, con qualche ascolto in più, riusciranno ad apprezzare anche questo lavoro del cantante, che ha molti aspetti positivi anche se profondamente diversi da quelli cui Jonathan ha abituato. In fin dei conti è giusto che sia così.
(2018, Sumerian)
01 Underneath My Skin
02 Final Days
03 Everyone
04 Happiness
05 Your God
06 Walk On By
07 The Secret
08 Basic Needs
09 Medicate
10 Please Tell Me
11 What You Believe
12 Gender
13 What It Is
IN BREVE: 3,5/5