Questo ragazzo ha chiaramente delle grandi qualità artistiche e, lo diciamo chiaramente, meriterebbe un riconoscimento maggiore di quello che gli viene generalmente tributato, soprattutto se lo paragoniamo a nomi che nel campo della musica pop soul e trip hop sono particolarmente “pompati”. Così come rispetto alle varie novità nel mondo della Ninja Tune che ogni tanto sfondano, dimostrando poi però di avere quello che possiamo definire come un successo effimero, seguito dall’incapacità di esprimersi su alti livelli per lunghi periodi.
Jordan Rakei è davvero bravo, il suo successo non è effimero ma comprovato su solide basi, infatti anche il suo terzo album in studio, Origin, anticipato dal singolo Say Something, già da un po’ di tempo in quella che una volta si chiamava radiodiffusione, è buono e si basa su presupposti interessanti sul piano concettuale: è il caso del senso di smarrimento dell’individuo in una dimensione che, in preda a una globalizzazione sempre più senza regole, con la tecnologia che è capace adesso di superare, anticipare e persino porci essa stessa dei bisogni, ci pone davanti a interrogativi che dal piano complessivo ci portano poi al personale.
La risposta in questo caso ci pone però davanti a due considerazioni: la prima è che Jordan Rakei, così come si propone di affrontare un tema così complesso, pure troppo, spara alto, si gioca tutte le sue carte e prova a realizzare un album che sia anche un prodotto spendibile a trecentosessanta gradi; la seconda è che forse questa qui non è esattamente la risposta giusta per sfidare questo sistema selvaggio.
In fondo è quindi vittima di se stesso questo ragazzo, ancora giovanissimo (classe 1992), ma comunque già provato in campo discografico, e questo disco ne risente perché alla fine se a un primo ascolto ti entusiasma, pure molto, poi se vai fino in fondo e ci ritorni su senti che qualcosa non torna. Cioè non c’è poi così tanta sostanza e, invece di aprirsi al mondo, Jordan si va a chiudere dentro una sorta di recinto in maniera autoreferenziale.
Permangono tuttavia considerazioni positive, l’innata ispirazione a quella che fu la black music, a partire dal punto di riferimento immancabile Marvin Gaye (Say Something), è qualcosa che va sempre bene; sul piano del trip hop fa cose che alla fine gli riescono meglio di Thom Yorke, tipo con Rolling Into One oppure Oasis. Risulta infine inevitabile metterlo a confronto con James Blake in varie tracce come Wildfire o Signs.
L’attitudine di base è comunque più che vocata a un’apertura nella direzione di forme di musica da club accattivanti, sul modello dei campioni della musica pop soul americana. Per fortuna però, anche se si potrebbe rischiare di colare a picco, si mantiene la rotta e si approda a un prodotto più che un porto finale, che non risolve ma che – va bene – è quantomeno sicuro e affidabile: fedele.
(2019, Ninja Tune)
01 Mad World
02 Say Something
03 Mind’s Eye
04 Rolling Into One
05 Oasis
06 Wildfire
07 Signs
08 You & Me
09 Moda
10 Speak
11 Mantra
IN BREVE: 2/5