Probabilmente qualcuno ricorda “Le Streghe”, il film a episodi del 1967 prodotto dal nostro Dino De Laurentiis e composto da cinque episodi diretti da altrettanti registi. Si trattava di un’antologia collettiva, dal senso piuttosto sfuggente, grottesco da osservare, difficile da seguire, con episodi scollegati l’uno dall’altro ma comunque coerenti; quello che uno qualsiasi di questi episodi aveva a che fare con la figura della strega rimane per lo più una questione di interpretazione individuale: la pentalogia si soffermava ad analizzare la figura femminile, dalle sue frustrazioni, alle costrizioni, ai ruoli stereotipati che i contesti le cuciono addosso. A collegare il celebre film di De Laurentiis con Aviary di Julia Holter può aiutare la teoria dei Sei Gradi di Separazione di Frigyes Karinthy, partendo dall’attitudine del disco a essere perfettamente scomposto in segmenti, continuando con la simbologia delle streghe, titolo del film di De Laurentiis e la contestualizzazione temporale della caccia alla streghe, medievale esattamente come la trasposizione tematica e sonora di “Aviary”.
Così, “la caccia” a tutti i riferimenti custoditi all’interno del quinto album dell’artista losangelina sembra quasi una provocazione, una sfida tanto per lo spettatore quanto per la critica, costretti entrambi a scavare nei meandri di quintali di materiale accademico, per tracciare un percorso in grado di connettere composizione ed esecuzione della musica corale, teoria storico medievale, filosofia, poesia, tenendo sempre a mente il fine ultimo della Holter: la creazione di un linguaggio che trae origine nell’Avanti Cristo e arriva all’era di Pontifex.
Nella composizione di quest’opera ineguagliabile l’idea del suono è arrivata prima di tutto il resto: la maggior parte delle tracce di “Aviary”, ammucchiate l’una sull’altra in deliziose dissonanze, per la massima acidità sonora, sono composte e arrangiate sotto forma di mottetti medievali del XIII secolo, vocalizzati con la tecnica corale dell’hoquetus – tecnica polifonica medievale, originaria dei pigmei centro africani ed esportata in Europa nel XIII secolo.
L’alternanza tra parole e pause, tipica dell’hoquetus, carica il suono di una specie di assordante chiacchiericcio, in entrata e in uscita, come se ci si trovasse “dentro una voliera piena di uccelli urlanti”. Le differenti accezioni del concetto di voliera creano un filo invisibile tra intenzioni, suoni e visioni che hanno mosso Julia Holter nella composizione di “Aviary”: c’è la voliera con cui descrive la “cacofonia della mente in un mondo che si sta sciogliendo”, contenuta nel verso preso in prestito da Etel Adnan, poetessa libano-americana (“Mi sono ritrovato in una voliera piena di uccelli urlanti”), ma c’è anche la voliera intesa come testo, manoscritto (così erano detti i testi copiati e ricopiati meticolosamente da scribi e monaci in epoca medievale aventi gli uccelli come soggetto principale, considerati nobili e custodi di memoria).
Un tale processo di scrittura è abbastanza tipico della personalità artistica della Holter, che da sempre raccoglie, traduce e trascrive testi letterari nelle sue liriche e composizioni, modificandole per adattarli ai propri scopi. La preziosa arte di tramandare, facendo viaggiare attraverso i secoli, testi di Dante (Words I Heard), di Puskin (In Gardens’ Muteness), di Saffo (I Would Rather See) e del trovatore del XII secolo Bernart de Ventadorn, l’utilizzo del latino per Chaitus, Voce Simul e Colligere non sono altro che un veicolo creato ad arte per far notare all’ascoltatore, in modo abbastanza insolito, che l’uomo è sopravvissuto a malattie, guerre e catastrofi e che oggi ha il potere e il dovere di correggere tutto ciò che è distorto per continuare a co-esistere in un ecosistema rimasto orfano di empatia; senza quella, tutto si trasforma in un caotico stridore di uccelli.
Ancora, riferimenti passati a Giovanna d’Arco, le crociate cristiane, l’isteria di massa della danza di San Vito fanno crollare il tempo trasformandosi in un specchio perfetto della xenofobia, la rabbia, le persecuzioni folli, le ansie e le isterie del presente. Al cospetto di un’opera di cotanta bellezza non resta che inchinarsi alla maestria di Julia Holter e a questi novanta minuti di puro incanto, vocale ma non solo. Completano quest’opera lunga e opulenta Dina Maccabee al violino, Andrew Tholl ai synth, Tashi Wada alle cornamuse, Sarah Belle Reid alla tromba, Devi Hoff al basso e Corey Fogel alle percussioni.
“Aviary” è un meraviglioso esercizio per menti curiose e intorpidite, aperto all’interpretazione come pochi album. È fugace come le nostre vite; è un salto costante tra il passato, il presente e il futuro per creare qualcosa che ancora oggi risulta sfuggente. Una perfetta rappresentazione di una mente piena di pensieri, idee, ansie, rabbia ed empatia.
(2018, Domino)
01 Turn The Light On
02 Whether
03 Chaitius
04 Voce Simul
05 Everyday Is An Emergency
06 Another Dream
07 I Shall Love 2
08 Underneath The Moon
09 Colligere
10 In Gardens’ Muteness
11 I Would Rather See
12 Les Jeux To You
13 Words I Heard
14 I Shall Love 1
15 Why Sad Song
IN BREVE: 4,5/5