Negli ultimi anni, dire “jazz” equivale a poco per la grande maggioranza del pubblico: più o meno equivalente a “musica di nicchia per intellettuali e/o sfigati” o, peggio ancora, “musica del passato”. Non sono in molti a proporre qualcosa di nuovo e il pubblico degli appassionati si dedica prevalentemente ai grandi del bebop o vira decisamente sulla cosiddetta fusion. C’è anche chi, recentemente, ha trovato un trait d’union tra il jazz e l’hip hop, entrambi rappresentativi della cultura musicale afro-americana: i vari Flying Lotus, Portico Quartet, BadBadNotGood hanno ottenuto risultati talvolta ottimi e hanno rimesso il jazz sulla mappa. Allo stesso modo hanno suscitato interesse i passaggi free jazz contenuti nel recente capolavoro di Kendrick Lamar (altrove recensito su questo sito).
Ma il jazz, quello che viene da New Orleans, quello considerato “l’unica forma d’arte realmente americana”, quello che rese New York l’epicentro del terremoto bebop, sopravvive allora solo in forme spurie o ibridi imbastarditi? Tendenzialmente le opere di jazz vero e proprio (non fusion, non hip hop misto a jazz) vengono relegate in un angolino, tra le recensioni di genere, a fianco della world music o della musica cubana, una nota a margine della cultura moderna. Né è avvenimento comune vedere un disco jazz tra gli album dell’anno di una qualunque rivista musicale che non sia esclusivamente dedicata al jazz.
L’egregio Kamasi Washington, di Inglewood, California, già turnista e responsabile degli arrangiamenti per il citato Lamar, ma anche sideman con Wayne Shorter, Chaka Khan, Flying Lotus, Herbie Hancock e molti altri ancora, sembra voler modificare questa tendenza e lo vuole fare, niente di meno, con un mastodonte di quasi tre ore che ha appropriatamente chiamato The Epic. E “The Epic” non è epico solo nel titolo o nella durata (o nei tempi di registrazione, giacché sono iniziate nel Dicembre 2011); l’epicità qui risiede negli arrangiamenti ambiziosi, nella composizione della band (band jazz da 10 elementi, coro da 20 persone e orchestra da 32 elementi, più due cantanti). Parte della jazz band è composta da amici d’infanzia di Kamasi: Thundercat al basso elettrico (altro sideman molto richiesto negli anni recenti), il fratello Ronald Bruner alla batteria e il tastierista Cameron Graves al piano. Ciò ha senz’altro avuto un’influenza determinante sul suono della band, compatta, fluida, affiatata come accade solo a chi suona insieme da una vita.
Insieme, Kamasi e la sua straordinaria band si muovono con la naturalezza dei più grandi, ma senza mai scimmiottarli come troppo spesso succede nel jazz moderno. Questa, infatti, non è una delle tante, troppe operazioni nostalgia, uno degli innumerevoli tributi a Tizio o Caio, una delle pallosissime rivisitazioni del repertorio di maestri che non dovrebbero essere rivisitati ma ascoltati. Questo, invece, è un album di musica nuova, interamente nuova: influenzata dal passato, non c’è dubbio, come Miles fu influenzato da Ellington e Charlie Parker, come Mingus fu influenzato da Lester Young e ancora Bird, come Coltrane fu influenzato da Coleman Hawkins. Nel sax di Kamasi non è arduo sentire l’influenza degli idoli Coltrane e Pharoah Sanders, nella batteria c’è l’influenza dichiarata di Art Blakey, nell’hammond di Brandon Coleman si possono scorgere gli orizzonti tracciati da Herbie Hancock nei suoi lavori con Miles.
Il punto di partenza sono gli idoli del passato, del jazz medesimo, ma ricordandosi di tutto ciò che è successo nel pop, nel soul, nel gospel, nel funk dai tempi in cui New Orleans dettava legge e Satchmo era Dio in terra fino ai giorni di Kendrik Lamar e Flying Lotus, senza per questo diventare fusion ma mantenendo un’identità che è facilmente identificabile come “jazz”, niente di più, niente di meno.
L’incedere di The Next Step, il delizioso tema di Leroy And Lanisha, il post-bop di Miss Understanding: non c’è una mera fusione di generi quanto un’evoluzione, un passo avanti. E se i pezzi vocali (con Patrice Quinn) potrebbero sembrare all’apparenza dei meri divertissement, gli ascolti ripetuti (in verità un tantino proibitivi, vista la durata) rivelano anche in quel caso una profondità rara di questi tempi.
Se la più volte citata durata (o persino, sorprendentemente, il genere) può intimidire i più, è anche vero che questo è un album straordinariamente accessibile: sarà per la memorabilità dell’apparato melodico a sostegno della destrezza tecnica, spesso sfoggiata da Kamasi o dal trombettista Igmar Thomas, sarà perché la capacità tecnica citata non sfocia mai in mera masturbazione, un banale tirarlo fuori e sfidarsi a chi ce l’ha più lungo (l’assolo), come dimostra il delizioso assolo di Kamasi in The Magnificent 7.
Forse un po’ pacchiani i cori, ma si tratta a occhio e croce dell’unico difetto (peraltro esattamente voluto per essere quel che è, “epico” nel senso di grandioso, straordinario) di un album incredibile. Non per tutti, ma del resto quando mai un album jazz lo è stato? Non per tutti, ma (ed è questa la vera notizia) decisamente non per pochi.
(2015, Brainfeeder)
– Volume 1: The Plan –
01 Change Of The Guard
02 Askim
03 Isabelle
04 Final Thought
05 The Next Step
06 The Rhythm Changes
– Volume 2: The Glorious Tale –
01 Miss Understanding
02 Leroy And Lanisha
03 Re Run
04 Seven Prayers
05 Henrietta Our Hero
06 The Magnificent 7
– Volume 3: The Historic Repetition –
01 Re Run Home
02 Cherokee
03 Clair de Lune
04 Malcolm’s Theme
05 The Message
IN BREVE: 4,5/5