Con “untitled unmastered.”, rilasciato a sorpresa l’anno scorso, si poteva intuire come Kendrick Lamar avesse voluto consegnare un ultimo lavoro per completare il percorso iniziato con “To Pimp A Butterfly” (2015), preannunciando un piano differente per il futuro. Se n’è avuta inoltre conferma con i singoli usciti ad anticipare questo DAMN. ovvero The Heat Part 4 (non contenuta poi nell’album) e HUMBLE.
“DAMN.” è l’essenza del minimalismo, in cui Lamar ripercorre i fondamenti della vita, visti dalla sua prospettiva. Non più un album consapevolmente maestoso, che vuole fungere da lascito per la comunità afroamericana, ma più un album per se stesso, senza dimenticare mai le sue origini: “I don’t do it for the Gram, I do it for Compton”. Una persona umile, humble, che vive di feel, pride, fear. Produzioni meno jazzy ma altrettanto raffinate, la stessa attenzione viene utilizzata per donare un ritmo più grezzo e “ghetto”, come era successo in “good kid m.A.A.d city” (2012), prima fra tutte la “bouncy” DNA., la “Backseat Freestyle” di “DAMN.” firmata Mike Will Made It (“I got royalty, got loyalty inside my DNA / Cocaine quarter piece, got war and peace inside my DNA / I got power, poison, pain, and joy inside my DNA”).
Il risentimento iniziale per il fraintendimento avuto con il giornalista Geraldo Rivera, citato in YAH., si è trasformato in rabbia, rabbia che ricorre in diversi momenti di tutto l’album. Contro colui che lo aveva accusato di fomentare le folle alla violenza durante l’esibizione di “Alright” (”And we hate the popo, wanna kill us in the street fosho…”, come ricorda in BLOOD.). Il suo messaggio di speranza è stato utilizzato per colpevolizzare e dare adito agli stereotipi elencati in DNA., dal giornalista secondo cui l’hip hop avrebbe fatto più danni del razzismo.
Lamar va controtendenza e crea la tendenza, in HUMBLE. dice basta alla mercificazione delle donne che devono rientrare necessariamente in certi canonici fisici (“I’m so fuckin’ sick and tired of the Photoshop / Show me somethin’ natural like afro on Richard Pryor / Show me somethin’ natural like ass with some stretch marks”). Controtendenza sono anche le collaborazioni, non tanto Rihanna in LOYALTY., che aveva già dimostrato con “ANTI” la sua maturità artistica, il basso di Thundercat in FEEL. o i canadesi BADBADNOTGOOD in LUST.: a sorprendere in modo particolare è la produzione di James Blake, che rende ELEMENT. tra i pezzi più significativi, e ancora il coro di Bono Vox in XXX. Sia Blake che gli U2 danno un contributo non invadente, ma ottimale per conferire maggior ricchezza ai brani.
L’alter ego Kung-Fu Kenny prende vita e attraverso lui Lamar rimane tra i migliori storyteller, come comprovato in DUCKWORTH., ultimo brano il cui finale riprende pezzi dell’album con un rewind conclusivo e la ricongiunzione all’incipit (“So I was takin’ a walk the other day”), che innesta l’urgenza di dover subito riascoltare l’album dall’inizio.
Le intenzioni dietro ogni album di Kendrick sono sempre chiare e finalizzate: al centro di “DAMN.” c’è lui come individuo per cui la fede continua a rimanere una necessità e contemporaneamente una debolezza, “Ain’t nobody praying for me” viene ripetuto più volte in diverse forme. Ritroviamo la stessa violenza e senso di appartenenza di “good kid m.A.A.d city”, in cui però era immerso nella vita a Compton. Dopo essersi prostrato per la sua comunità in “To Pimp A Butterfly”, Lamar torna a essere se stesso come forse non aveva mai osato.
(2017, Top Dawg / Aftermath / Interscope)
01 BLOOD.
02 DNA.
03 ELEMENT.
04 FEEL.
05 LOYALTY. (feat. Rihanna)
06 PRIDE.
07 HUMBLE.
08 LUST.
09 LOVE.
10 XXX. (feat. U2)
11 FEAR.
12 GOD.
13 DUCKWORTH.
IN BREVE: 4,5/5