“I hope you find some peace of mind in this lifetime
I hope you find some paradise”
Diffidate dai first listen. Diffidate dai commenti immediati, dalle recensioni che non entrano in profondità. Diffidate di chi non cita nemmeno un testo. Diffidate dalle poche righe. Diffidate dai confronti interni, di chi scompone senza ricomporre l’unità di un lavoro. Diffidate di molti, anche di chi sta scrivendo. Semplicemente perché è errato liquidare – nel bene o nel male – un’opera come Mr. Morale & The Big Steppers. Troppo complessa, intensa e strutturata per poter penetrare dopo un ascolto dove deve – per farlo senza una lettura, dimenticando che c’è la penna di un Premio Pulitzer di mezzo. Fosse solo quella, poi.
A leggere i credits del sesto album di Kendrick Lamar viene il mal di testa. Thundercat, Pharrell, Ghostface Killah, Beth Gibbons, Sampha, The Alchemist, Beach Noise, Sam Dew, Florence Welch, Khalil, Oklama. E chi più ne ha più ne metta. Un’informazione, questa, che potrebbe traviare. Perché spesso una ricchezza simile può condurre a un difficile bilanciamento della narrazione – sia lirica che sonora. E invece. Invece qui, la prima cosa da sottolineare è la perfetta (in)visibilità della produzione. L’equilibrio impressionante del tessuto sul quale il rapper nativo di Compton cuce a misura la sua epopea di un’ora e un quarto lungamente attesa e ampiamente, decisamente ripagata.
Le prime parole del disco, riportate in apertura dell’articolo, sono un lamento gospel che fungerà da fil rouge in più punti, con differenti declinazioni. Qui servono, immediatamente, a settare con estrema chiarezza la differenza fra i precedenti capitoli della saga artistica del Nostro e questa doppia, indimenticabile fatica. E cioè. Siamo davanti all’episodio più personale dell’artista, quello in cui si mette non solo al centro della volontà – chiamiamola – musicale della resa, ma anche e soprattutto al centro del racconto. E di fatti continua: “I’ve been goin’ through something / Be afraid”. Il qualcosa a cui accenna – e che sarà di lì a poco rovesciato addosso all’ascoltatore (attento) – può essere sintetizzato o banalizzato forse col comune passaggio all’età adulta, e con la meno comune plasmazione non tanto di chi si è ma di chi si è consapevoli di essere e voler condividere.
Non è un caso, infatti, che la terapia sia forse il nodo principale del risultato. L’elaborazione dei traumi passati e la messa alla berlina delle proprie a tratti viscide, sconvenienti tendenze. Kendrick alza il tappeto e tira fuori la polvere: il tradimento coniugale in Worldwide Steppers, le “daddy issues” personali e professionali in Father Time, le relazioni ultratossiche in We Cry Together, l’omofobia in Auntie Diaries – e sono solo alcuni esempi. Vale la pena aprire una piccola parentesi sugli ultimi due brani appena citati, fra i capolavori del capolavoro: una spettacolare battaglia dialettica il primo (col contributo essenziale dell’attrice Taylour Page) e un commovente crescendo d’inclusione il secondo, supportato da una base strozzata che si concede man mano.
Fra i topic più sottolineati c’è anche la cancel culture, trave portante del singolo N95 insieme – naturalmente – al “new world” nato a braccetto col COVID. Lamar invita con sé lungo il viaggio Kodak Black, collega condannato nel 2017 per violenza sessuale, contribuendo ad alimentare la discussione su quello che probabilmente è in realtà il suo focus più caro: la redenzione, la spiritualità. La ramificazione della sua fede cristiana in altre fedi, come nell’avvio di Count Me On: “One of these lives, I’ma make things right”. O soprattutto il ripudio e l’impotenza (“Where’s my faith? Told you I was Christian, but just not today / I transformed, prayin’ to the trees, God is taking shape”) nella gemma più splendente del long play, l’indimenticabile e definitiva Mother I Sober. Siamo di fronte a una vetta assoluta non soltanto della discografia firmata KL, ma del genere intero. Un potentissimo romanzo familiare nel quale confluiscono molti dei temi precedentemente elencati, sotto l’egida del dramma dell’abuso e del vortice d’insicurezze, vulnerabilità e dolore che attraversa le generazioni come una maledizione da spezzare. Impossibile non rimanere speechless (tanto per citare Eminem, che così ha commentato l’intera fatica), non farsi mettere all’angolo dall’angelica voce di Beth Gibbons quando pensiamo possa offrirci un respiro – e invece affonda il coltello cantando: “I wish I was somebody / Anybody but myself”.
Con “Mr. Morale & The Big Steppers”, Kendrick Lamar mette a roster il suo tradimento più grande. Delude i fan della prima ora, delude quelli che speravano la cavalleria fosse ancora più pesante e radiofonica. Delude – anzi: demolisce ogni possibile attinenza con un destino forzatamente mainstream nel modo più artisticamente dritto di tutti: creando un’opera prima per sé e poi per gli altri. “I choose me, I’m sorry”, ripete come un mantra nel canzonante ritornello della conclusiva Mirror. E ancora: “Sorry I didn’t save the world, my friend / I was too busy buildin’ mine again”. Scuse accettate, caro. Ci rivediamo tra qualche anno per cambiare di nuovo le regole del gioco.
(2022, Aftermath / Interscope / TDE / pgLang)
– DISCO 1 –
01 United In Grief
02 N95
03 Worldwide Steppers
04 Die Hard (feat. Blxts & Amanda Reifer)
05 Father Time (feat Sampha)
06 Rich – Interlude
07 Rich Spirit
08 We Cry Together (feat. Taylour Paige)
09 Purple Hearts (feat. Summer Walker & Ghostface Killah)
– DISCO 2 –
01 Count Me Out
02 Crown
03 Silent Hill (feat. Kodak Black)
04 Savior – Interlude
05 Savior (feat. Baby Keem & Sam Dew)
06 Auntie Diaries
07 Mr. Morale (feat. Tanna Leone)
08 Mother I Sober (feat. Beth Gibbons)
09 Mirror
IN BREVE: 5/5