Sembrerà incredibile ai numerosi sostenitori della genialità di tutto ciò, ma potrebbe non essere rilevante tra 50 anni sentire “Don’t try to treat me like I ain’t famous / My apologies, are you into astrology / Cause I’m, I’m tryin to make it to Uranus” su una base di drum machine Roland. Potrebbe invece essere rilevante per lungo tempo il lavoro straordinario fatto dal young’un (beh, 28 anni a Compton potrebbero sembrare tanti), seconda opera dopo l’ottimo “good kid, m.A.A.d city”, un’opera straordinariamente ambiziosa che si propone di affrontare la situazione tuttora assai complicata dell’uomo di colore, con gli occhi di Kendrick, nero americano ormai ricco e famoso ma tormentato dai sensi di colpa per essere riuscito a uscire vivo da Compton, a viaggiare in prima classe, a godersi successo e sicurezza economica (e poco altro: è fidanzato con la sua ragazza del liceo, non fuma, non beve e non si droga) mentre i suoi amici, le persone con le quali è cresciuto, continuano a vivere nel degrado cittadino, spacciano, si drogano, muoiono ammazzati per scontri tra gang avversarie.
“Survivor’s guilt” la chiama, nel lungo monologo che si rivela pezzo dopo pezzo fino a svelarsi per intero nella conclusiva Mortal Man. Ma se Kendrick è tra i sopravvissuti non è un mero caso, non è una botta di culo di un rappettaro come tanti che ha avuto la fortuna di avere qualche hit single, non l’ha raccomandato qualche amico che ce l’aveva fatta prima di lui. Lamar ha ambizione, dedizione, duro lavoro e una sincera e profonda passione per quello che fa, dalla sua. E con To Pimp A Butterfly vuole dire qualcosa d’importante e che lasci un segno.
“To Pimp A Butterfly” significa “fare il magnaccia a una farfalla”: un titolo che contrappone la farfalla, che rappresenta la bellezza della vita, la gioia di stare al mondo, ma anche il successo, il potersela godere questa vita, e un termine che indica lo sfruttamento, un termine aggressivo, forte (beh, forse meno forte per un nero di Compton che per un ragazzino bianco di Busto Arsizio). Fare da magnaccia alla propria celebrità e non farsi sfruttare a causa di essa. Usarla per qualcosa di positivo. Un uso liberale del termine, ma non sarà l’ultima licenza che si prende in quest’opera.
Musicalmente, è un enormità: free jazz, funk, spoken word, hip hop (naturalmente). È arduo stabilire cosa sia cosa, né sono tracciati limiti di sorta. Anzi, ascoltando “To Pimp A Butterfly” tutto d’un fiato ci si sente ubriachi per quanta roba sia riuscito a infilarci dentro, affidando a un cast straordinario il compito di mettere in pratica le sue istruzioni: da Kamasi Washington (sax) a Robert Glasper (piano), dai due Snarky Puppy Lalah Hathaway (voce) e Sput Searight (batteria) a Ambrose Akinmusire (tromba), da Thundercat (basso) a Keith Askey (chitarra), da Bilal (voce) a Flying Lotus (una caterva di roba), senza contare guest come George Clinton, Snoop Dogg, Dr. Dre e persino la buonanima di Tupac (ci torneremo dopo).
Più che un concept album, tra ensamble cast, cameo e monologhi, “To Pimp A Butterfly” sembra un film, uno di quei filmoni pesanti, difficili da capire, con la morale, con personaggi ambigui: Wesley Snipes, ad esempio, oggetto dell’apripista Wesley’s Theory, che tratta di come la società americana si disinteressi dei neri anche dopo che hanno successo, o meglio ci si interessi solo per incularli a causa dell’incapacità di difendersi, della mancanza di familiarità col mondo di chi ha i soldi. Snipes è stato arrestato per evasione fiscale, molto probabilmente e verosimilmente dovuta a ignoranza della legge più che a una reale intenzione di frodare il fisco. Il Giudice William Terrell Hodges non si è fatto intenerire dal fatto che questa fosse una misdemeanour, né dall’assenza di precedenti penali del buon Wesley che chiedeva arresti domiciliari e di ripagare quanto dovuto. No, di Wesley e della sua ignoranza si doveva fare un esempio per tutti: tre anni di galera, fino all’ultimo giorno, massimo della pena e che si fotta ‘sto negro.
Apostrofa Dre nella stessa traccia: “Remember the first time you came out to the house? You said you wanted a spot like mine. But remember, anybody can get it. The hard part is keepin’ it, motherfucker”. Aggiunge Bilal, nel ritornello di Complexion: “Shit don’t change until you get up and wash yo’ ass, nigga”. Ed è sostanzialmente questa la chiave di lettura: in un mondo (quello degli Stati Uniti nello specifico, ma non necessariamente solo quello) dove una ventina di afroamericani disarmati viene uccisa ogni anno dalla polizia americana semplicemente per il colore della pelle, gli homies dovrebbero smettere di farsi la guerra e dovrebbero combattere per una reale uguaglianza, perché “every nigga is a star” (come si sente nel sample di Boris Gardiner usato proprio nella prima traccia). “How many niggas we done lost?” chiede K Dot in i, qui in una versione live interrotta da un lungo monologo nel quale si prende un’altra libertà linguistica, questa volta con la parola “nigger”, ricollegandola alla parola africana “Negus”, una parola d’origine etiopica che significa “Re”.
Con tutto questo parlare, “To Pimp A Butterfly” potrebbe apparire più come una spada nel culo che come lo straordinario album che è, ma la parte musicale si ricollega a una linea di capolavori nella musica afroamericana moderna (“Stankonia” degli OutKast su tutti, ma anche “Phrenology” dei Roots, “Voodoo” di D’Angelo, “Electric Circus” di Common), complicati forse, difficili sicuramente, com’era complicato il bebop, com’erano difficili le idee di Miles Davis, ma assolutamente meritevoli di un ascolto approfondito e attento, dato che la loro ricchezza si rivela volta dopo volta, ed era ed è una ricchezza di contenuto prima che formale.
Kendrick è talmente in forma, talmente sul pezzo che riesce a rendere un qualcosa di altrimenti risibile un momento interessantissimo: un’intervista fatta a Tupac da una radio svedese viene trasformata in un tributo all’idolo di una vita e allo stesso tempo in una spiegazione conclusiva di quello che è il punto che ha cercato di esplicare nel corso dell’opera: un’appassionata discussione sulla gioventù nera d’America, inserita alla fine di Mortal Man, uno dei pezzi più tradizionalmente hip hop dell’album nel quale Kendrick mostra tutta la sua paura, i suoi desideri, i suoi idoli (Mandela, Malcom X, Tupac appunto). E chiede, nel ritornello, quasi consapevole del rischio che si è preso “When shit hits the fan is you still a fan?”. Molti sembrano aver risposto un caloroso “sì”.
(2015, Aftermath / Interscope)
01 Wesley’s Theory (feat. George Clinton & Thundercat)
02 For Free? (Interlude)
03 King Kunta
04 Institutionalized (feat Bilal, Anna Wise & Snoop Dogg)
05 These Walls (ft. Bilal, Anna Wise & Snoop Dogg)
06 u
07 Alright
08 For Sale? (Interlude)
09 Momma
10 Hood Politics
11 How Much A Dollar Cost (feat. James Fauntleroy & Ronald Isley)
12 Complexion (A Zulu Love) (feat. Rapsody)
13 The Blacker The Berry
14 You Ain’t Gotta Lie (Momma Said)
15 i
16 Mortal Man
IN BREVE: 5/5