Home RECENSIONI Kim Gordon – The Collective

Kim Gordon – The Collective

Provate a sbatterci voi contro gli occhi di Kim Gordon, quanto resistete? Lame che ti tagliano in due come lo sguardo di Marina Abramovic nella celebre performance “The Artist Is Present”. Un taglio obliquo quello degli occhi di Kim incorniciato dal collo del giubbino di pelle, una cascata di capelli biondi nonostante gli anni che però per Kim non passano. Non ha età Kim Gordon, Kim è ieri e oggi calibrata nello stesso identico luogo che è l’avanguardia, prima con il rumore dalla grana grossa dei Sonic Youth, oggi con una carriera solista disturbante, cupa, metropolitana, iniziata con “No Home Record” del 2019, oggi proseguita con The Collective: una bolgia infernale in cui è il presente a svelarsi. Avanguardia si diceva: Gordon ama definirsi un’artista visuale e non ci sono limiti fisici che possano intralciare l’arte. È per questo che i suoi dischi non sono altro che il prolungamento sonoro delle sue opere.

Come detto, in questo disco, il tema è il presente, più precisamente la collettività nel suo presente. Uomini e donne, o ciò che rimane di loro, sminuzzati nei tasselli mobili della contemporaneità. “In questo disco volevo esprimere l’assoluta follia che percepisco attorno a me – ha detto Kim – un momento in cui nessuno sa veramente quale sia la verità”. I pezzi sono così dei francobolli polverizzati, schegge sottopelle, sono coriandoli di verità, con un impianto musicale che segue questa frammentazione con parole singhiozzanti, brandelli di musica analogica, e palpitazioni accelerate. In due parole caos contemporaneo.

“Avevo voglia di destabilizzare” – dice Kim. E destabilizzare per lei e per il producer Justin Raisen (già nel primo disco) è spellare la musica. Un tunnel nero di beat, di chitarre distorte, elettronica cupa. Anche la sua voce emerge in superficie e poi torna a immergersi nel liquame. BYE BYE, in apertura disco, ci ferma in quello che stiamo facendo. Un pulsare nero e un gocciolare ossessivo sembra anunciare l’arrivo dei Nine Inch Nails di “The Downward Spiral” (disco che, in un gioco di rimandi, usciva nello stesso giorno ma del 1994). Kim entra e sublima l’industrial portando questo pezzo a stuzzicare con le unghie il vello della follia. Poi c’è I’m A Man, che è contemporaneamente storia del mondo e storia di ogni giorno. Gordon sfibra i sensi comuni, li contesta, li umilia. Sceglie l’8 Marzo per l’uscita del suo album, poi prende parola come fosse un maschio, “Non è colpa mia se sono nato uomo” stringe tra i denti il protagonista. Quello di I’m A Man, concedeteci, è uno dei testi più importanti degli ultimi anni: una donna che straccia i panni di Zeus, senza rivalsa però, con pietà. “Non sono l’ideale” – dice questo figlio del presente – “sono una persona, ho vinto la guerra, ma ho perso la strada”.

Poi un po’ di passato e un po’ di presente di Kim. Prima i suoni distorti di Dream Dollar che sono un chiaro omaggio ai Suicide e, con loro, alla New York che i Sonic Youth hanno masticato per quarant’anni. Un po’ di presente (che poi è anche passato), ovvero Psychedelic Orgasm, un viaggio al centro di Los Angeles, la città natale di Kim.“Sotto l’autostrada, notte in fiamme, iniziano gli incendi, magia, funghi magici, orgasmo psichedelico” – mugugna Kim. Gordon è una narratrice onniscente, taglia la città, la ritrae nella sua irresistibile mostruosità del presente tra bambini, supermercati, deliri. Una tavolozza, come declama nel refrain “Los Angeles è una scena artistica guidata dalla situazione”. Lo sguardo complesso di Los Angeles che è lo sguardo implacabile di Kim Gordon che sembra voler dire: quando ci si spinge verso questo livello di complessità vincere o perdere non fa nessuna differenza. L’obiettivo è capire e, soprattutto, tenere in vita il mondo.

2024 | Matador

IN BREVE: 4/5