Liberato è un incubo. È apparso all’improvviso, si è imposto sin da subito, non si sa chi sia. Scrive canzoni d’amore in dialetto napoletano, tendenzialmente è un (t)rapper e le sue basi sono un concentrato radiofonico indiscusso. Ha generato un’attenzione quasi preventiva praticamente mai vista prima in Italia, creato adepti nazionali e internazionali, stipulato accordi commerciali non da poco. È un’invenzione collettiva – nel senso che dietro, questa è l’unica cosa certa, esistono più menti che confluiscono in una voce; ma forse anche nel senso che noi, tutti noi ci siamo cascati. Eppure quest’album, parliamoci chiaro, è molto più che un semplice buon prodotto. È il risultato di un meccanismo diabolico poiché semplicissimo: in semplice – cioè – antitesi con tutto ciò ch’è contemporaneo. Pur suonando, naturalmente, (per il) contemporaneo.
Sfruttando il più forte dei catalizzatori mediatici, cioè il mistero, Liberato ci ha messo le spalle (più specificatamente un giubbotto) laddove tutti e tutte, mascherati e non, ci hanno sempre e solo messo la faccia. In tempo di contratti da un disco l’anno, ha pubblicato brani a singhiozzo dal 2017 a oggi. In epoca di singoli (con relativi videoclip) estratti dagli album sino a succhiarne l’ultima, intollerabile goccia di sangue, ha già lanciato ogni missile con la sapiente regia di Francesco Lettieri. Mentre il mondo, specie nostrano a parte qualche eccezione, fa partire countdown infiniti prima di dare alle stampe una qualsiasi flatulenza discografica, lui (loro) se ne esce (escono) con un’opera a metà tra la sorpresa e il rispetto ossessivo per una data battezzata al grande esordio, il nove di Maggio.
Una sistematicità simile e similmente ordita basta già per tracciare una linea netta tra detrattori assoluti ed entusiasti. Non ci fosse, di mezzo, la musica. Perché la musica è il piatto forte del progetto, anch’essa sistemica e gravemente endemica. Una mistione eccezionalmente popolare che parte dalla tradizione – anche nella sua incarnazione meno nobile – della canzone napoletana, del lamento amoroso e nostalgico: sino a incastrarla in un vocabolario moderno e contaminato da altro idioma. Il tutto, sagacemente, sorretto da una produzione che affonda dritta nelle acque r’n’b, reggaeton, disco music senza dimenticare momenti di sacrosanta distensione, come nel caso della nuova veste di Gaiola e Niente, giustamente incastrate tra i quattro pezzi più frenetici del lotto, tra cui spicca la caleidoscopica Nunn’a voglio ’ncuntrà. Tutto l’LP, d’altronde, è un incastro ben studiato, non a caso aperto e chiuso dalle due canzoni che hanno dato il La al fenomeno in sé, Nove Maggio e Tu t’e scurdat’ ’e me.
Insomma, come scritto in apertura: Liberato è un incubo. Per i colleghi e per il cosiddetto ambiente, per gli ascoltatori confusi un po’ come i critici, imbarazzatamente indecisi se abbracciare o meno questo lato oscuro e un po’ cafone di sé stessi. Il dato oggettivo è che Napoli, a differenza di altre città, segna col Nostro un’altra tacca della sua biodiversità musicale, facendo il paio col graditissimo riscontro, tra gli altri, dei Nu Guinea. Che si tratti di un’invenzione collettiva o che di collettivo ci sia soltanto un grosso abbaglio, francamente: può anche restare puzza di bruciato. Ma se non altro è perché qualcosa, inopinatamente, arde.
(2019, Autoprodotto)
01 Nove Maggio
02 Intostreet
03 Je te voglio bene assaje
04 Oi Marì
05 Gaiola
06 Tu me faje ascì pazz’
07 Guagliò
08 Me staje appennenn’ amò
09 Nunn’a voglio ‘ncuntrà
10 Niente
11 Tu t’e scurdat’ ‘e me
IN BREVE: 4/5