In occasione del loro quarto lavoro in studio, i Linkin Park gettano finalmente via la maschera. Non scopriamo di certo oggi di che pasta sono fatti i sei californiani, ma A Thousand Suns è ciò che potremmo definire una sincera ammissione. Basta col finto metallino, basta con le distorsioni – distorsioni, diciamocelo, mai “metal” nell’accezione più pura del termine –, basta col far finta di essere una rock band. I Linkin Park sono stati, sono e saranno sempre una pop band da classifica. Scomodare l’etichetta “nu-metal” è stato fuori luogo in relazione alla loro musica sin dagli esordi. Non hanno mai avuto il malessere e le distorsioni ribassate dei Korn, non hanno mai avuto la furia omicida e le ritmiche martellanti degli Slipknot, non hanno mai dimostrato di possedere la vena crossover, non hanno mai pagato dazio ai Pantera, il cui catalogo chitarristico è fondamento del genere: tra i grandi critici che scorazzano tra web e carta stampata nessuno s’è mai preso la briga di tirar fuori i Linkin Park da un calderone al quale non sono mai appartenuti se non per comodità pubblicitarie. Quindi ci fa piacere che il sestetto guidato da Chester Bennington abbia smesso di giocare a fare i semi-duri, abbia messo da parte quella plastica cattiveria che non è mai loro appartenuta e che abbia realizzato un album pop al cento per cento. Evviva la sincerità. “A Thousand Suns” è una collezione di canzoni alle quali manca però la capacità di sfondare la calotta cranica dell’ascoltatore e di prendere residenza dentro la sua memoria. Aleggia la cupa nube della catastrofe nelle liriche, la situazione politica internazionale dei giorni nostri sta facendo risorgere l’agghiacciante timore di una nuova guerra atomica ad oltre vent’anni dalla (presunta) fine della Guerra Fredda. E i Linkin Park, animati dalla loro sensibilità, si fanno portavoce di questa niente affatto infondata paura globale. Ma lo fanno con un lavoro che è una vera noia mortale. Piatto come l’elettroencefalogramma di un deceduto. Una fatica che persino il valoroso Ercole avrebbe avuto serie difficoltà nell’affrontare e superare. Immaginatevi noi, comuni scribacchini mortali che con la leggendaria possanza di Ercole non abbiamo nulla da spartire, immaginatevi noi ad affrontare quarantasette minuti di penuria creativa in totale apnea. Già si comincia male con ben due intro: nella maggior parte degli album una è più che sufficiente se non proprio dispensabile, figuratevi due, una dopo l’altra. Poi arriva la cassa continua del refrain di Burning In The Sky, ma non animatevi troppo: non c’è niente da ballare, niente che potrebbe farvi schiodare il fondoschiena dalla sedia. Poi ci sono ben cinque intermezzi che vanno dai diciotto secondi (Empty Spaces, ad esempio) al minuto e mezzo e di cui siamo certi avrete già capito il coefficiente di utilità: sotto zero. Apprezzabile il groove di When They Come For Me, in cui sale in cattedra il rapping di Mike Shinoda, e Blackout, che sembra un buon compendio tra Incubus ultima maniera e gli Orgy (anch’essi esponenti temporanei del nu-metal, se ben ricordate). Ma a rovinare quei barlumi di criterio arrivano a tutta velocità le tentazioni da fate-il-nome-di-una-boy-band-a-caso-tanto-una-vale-l’altra di Robot Boy e Waiting For The End, e Wretches And Kings, che senza Bennington che vuol fare il Kurt Cobain della situazione e con un pizzico di appeal giamaicano in più non avrebbe sfigurato in un disco di Sean Paul. Sul serio. Iridescent pare per qualche attimo riciclare il tema melodico della succitata “Burning In The Sky” in virtù di una latitanza di idee che mette i brividi; il singolo The Catalyst ha qualche scoria dance tedesca anni Novanta nel giretto di synth (gli Scooter, ma senza le ritmiche techno) ma è sprovvisto di quella assillante vena melodica che rende le canzoni hit-singles. Chiude The Messenger che è la ballad acustica che ci aspetteremmo da un qualunque aspirante novello Bon Jovi. E, giusto per gradire e non trascurare nessuna nota, ci va di dire che non bastano i superproduttori a fare gigantesco un album se manca la materia prima, la qualità intrinseca alla scrittura: è solo quindi rigore di cronaca menzionare il coinvolgimento del celeberrimo Rick Rubin nell’operazione. Cosa rimane da dire di tanta pochezza artistica? Per lo meno, ai tempi di “Hybrid Theory” e “Meteora” i Linkin Park erano capaci di piazzare qualche ritornello che, vuoi o non vuoi, finiva che si canticchiava senza accorgersene. Ma adesso, anche a volerli considerare per quello che sono sempre sostanzialmente stati, una band che produce canzoni pop con l’unico fine di scalare le charts mondiali, non troviamo alcun motivo per cui la massa – che però è magistralmente coprofaga per antonomasia (e se non ci perdonate lo snobismo non ci importa proprio nulla) – debba dar loro qualche chance. A confronto le hit di Lady Gaga sono capolavori di efficacia nel farsi ricordare. Almeno adesso, con un album così sfacciatamente non-rock, i saccenti, i puristi del metallo e i rompipalle a caso la smetteranno di accostare il loro nome al sostantivo Metal, genere al quale non sono mai appartenuti, e questa ne è la prova definitiva.
(2010, Warner Bros)
01 The Requiem
02 The Radiance
03 Burning In The Sky
04 Empty Spaces
05 When They Come For Me
06 Robot Boy
07 Jornada Del Muerto
08 Waiting For The End
09 Blackout
10 Wretches And Kings
11 Wisdom, Justice And Love
12 Iridescent
13 Fallout
14 The Catalyst
15 The Messenger
A cura di Marco Giarratana