Giunti quasi al decimo anniversario dal loro esordio con “Gorilla Manor” (2009), arriva il quarto disco della band di Silver Lake, Violet Street. Ripercorre il loro iter musicale è d’obbligo prima di soffermarsi sull’ultimo lavoro, grazie al quale, a quanto pare, sembrano aver ritrovato la rotta dopo essersi spinti un po’ a largo con il loro album precedente, “Sunlith Youth” del 2016.
Hanno tenuto un po’ col fiato sospeso ma alla fine sono riusciti a ribaltare le carte in tavola, c’era da aspettarselo dai “fratelli minori” di Dessner. D’altro canto, anche lui li ha custoditi per bene sotto la sua ala dapprima aprendogli nel 2011 le porte del tour dei The National, subito dopo accompagnandoli anche nella fase della loro maturità artistica producendo il loro secondo album “Hummingbird” (2013). Ora come ora si avverte nuovamente l’essenza dei loro primi brani, la consapevolezza artistica degli anni successivi e la freschezza espressiva di chi guarda in prospettiva.
Sfumature pop incorniciano armonie a tre e quattro voci sempre delicate, sofisticate e leggere, beat soffusi e tipiche sonorità indieggianti. Non mancano neppure venature in stile dance anni ‘80. Alcuni brani primeggiano ed esplodono in estetismi vocali che riportano alle origini: When Am I Gonna Lose You, stampo pop, quattro voci relate preziosamente e falsetti che proiettano in un iperspazio sonoro senza limiti dimensionali. Ecco il cuore di “Violet Street”, e se anche il testo rende un argomento tipico quale quello di una relazione amorosa poco banale, allora il gioco è fatto. Bisogna ringraziare Rice per questo.
Anche Tap Dancer si muove nella stessa direzione compositiva e stilistica ed è uno di quei brani che funzionano già dal primo ascolto. Tra l’ascoltatore e Café Amarillo, il primo singolo estratto, c’è un nodo viscerale che si stringe quando se ne analizzano le parole (“I don’t wanna die before I learn to live”) e si slarga quando se ne apprezzano le sonorità leggere e serene. I beat oculati in chiave elettronica di Garden Of Elysian e Gulf Shores risuonano con sincronia nell’orecchio di chi li ascolta, persuadono la mente quanto la pelle. In alcuni punti sono chiare le influenze radioheadiane, sia negli arrangiamenti che nello stile vocale.
Ma partiamo dall’intro dell’album per trarre le dovute conclusioni. Il sound di Vogue, in due minuti e mezzo circa di scattering di pianoforte, corde e archi, di cori e voci eteree, limpide e impalpabili, oltre che racchiudere e proferire alla perfezione i tratti caratteristici della band, ci proietta già in maniera risolutiva verso ogni singola tappa che i brani segneranno nell’album nei minuti a seguire. Però è anche giusto dar spazio allo spirito giocoso dei californiani Local Natives, dato che la stagione estiva sta arrivando: viaggio in macchina, finestrini abbassati, vento sul viso e Megaton Mile alla radio è in assoluto quello che ci vuole.
(2019, Loma Vista)
01 Vogue
02 When Am I Gonna Lose You
03 Café Amarillo
04 Munich II
05 Megaton Mile
06 Someday Now
07 Shy
08 Garden Of Elysian
09 Gulf Shores
10 Tap Dancer
IN BREVE: 3,5/5