Lonnie Holley è sicuramente uno degli artisti afroamericani che più hanno destato interesse negli ultimi anni. Ha una storia particolare: nato nel 1950 a Birmingham, in Alabama, settimo di ventisette figli, ha cominciato a lavorare dall’età di cinque anni e nel corso della sua esistenza ha fatto praticamente di tutto. Ha raccontato storie che non sappiamo se e quanto siano vere ma che sono comunque verosimili, ad esempio che è stato scambiato per una bottiglia di whisky quando aveva quattro anni, oppure che una volta è stato investito da un’auto ed è stato dichiarato cerebralmente morto; è stato in una struttura carceraria giovanile; ha quindici figli. Vere o no tutte queste storie, quello che è certo è che sia di umili origini e che la sua vita sia stata comunque difficile e che a queste difficoltà ha reagito con il talento e affermandosi come artista. Nel 1979 scolpì delle pietre tombali per i due figli della sorella, che morirono durante un incendio nella sua abitazione, circostanza da cui prese il via un percorso artistico originale e che dalla metà degli anni Ottanta, una volta allargatosi dalla scultura ad altre forme d’arte, spesso con materiali da riciclo, gli ha regalato una fama sempre crescente.
Poi, a un certo punto, ha deciso che aveva qualche cosa da dire anche come cantante e scrittore di canzoni. “Just Before Music” (2012), “Keeping A Record Of It” (2013) e infine l’approdo su Jagjaguwar con “Mith” del 2018. Fedele al suo modello compositivo, già proposto nelle altre forme d’arte, la musica di Lonnie Holley è popolare, affonda le radici nella storia e tradizione della popolazione afroamericana, ma è allo stesso tempo sperimentale, rifugge da ogni classificazione classica e si propone come avanguardia.
Del resto Holley non è un musicista di professione, il suo processo creativo è anche qui del tutto oggetto di improvvisazione, le sue canzoni sono state per molto tempo mai oggetto di diffusione anche per questo. Tutto poi è precipitato negli ultimi anni, ma non ha mai fatto del suo successo in campo musicale la sua attività principale. Lo stesso tipo di approccio è quello che riguarda il contenuto di questo EP, che è stato registrato durante una sessione nel 2014 in studio con Richard Swift (1977-2018): si intitola National Freedom ed è uscito anche questa volta su Jagjaguwar.
Apre Crystal Doorknob, un pezzo blues minimalista costruito su basso, batteria e chitarra (di Marshall Ruffin), cantato in una maniera urlata da Lonnie, un recital selvaggio e primitivo; In It Too Deep introduce suoni più sperimentali, il pezzo è ancora più scarno, il cantato lamentoso e intriso di spiritualità soul è accompagnato solo dal suono della kalimba suonata in maniera che definirei quasi rudimentale, del tutto istintiva. È proprio questo tipo di approccio, un approccio tattile, quello che contraddistingue un album che si costruisce sulla rivendicazione di una natura originaria dell’essere umano e che poi sarebbe la sua emancipazione come uomo nato e fatto per essere libero. Like Her Broke Away è un grande pezzo rock’n’roll blues più suonato e che dipinge atmosfere crude e minimal à la Tom Waits con le tinte insanguinate delle vene più oscure di Nick Cave. Poi il boogie fantasma di Do T Rocker, il blues suonato al pianoforte di So Many Rivers, suonata al pianoforte e urlata in maniera sperimentale, anche “onomatopeica”, per undici minuti.
Sono solo cinque pezzi, ma sono tutti e cinque delle grandi canzoni e ci dicono che se c’è ancora oggi una grande eredità della musica del blues del delta e se questa si può considerare ancora oggetto di rinnovamento, la musica di questo artista e la sua visione complessiva ne sono un’alta rappresentazione. Maledettamente attuale. Non do il massimo dei voti perché sono esigente oppure, più semplicemente, un rompiscatole e perché questo è “solo” un EP, ma non perdetevelo.
(2020, Jagjaguwar)
01 Crystal Doorknob
02 In It Too Deep
03 Like Hell Broke Away
04 Do T Rocker
05 So Many Rivers (The First Time)
IN BREVE: 4/5