Il primo giorno di Settembre dell’anno 2021, Pitchfork ha pubblicato un’intervista così intitolata: “I Low continuano a suonare come nessun altro”. Uno statement corretto, diretto, (quasi) perfetto. È vero: Alan Sparhawk e Mimi Parker hanno ridefinito se stessi più di una volta, mantenendo intatto il cuore della propria musica – cosa che riesce soltanto ai giganti d’ogni epoca. Con la caduta (reale, materica: la morte) degli dei che hanno attraversato, pesantemente, generazioni su generazioni (ultima, solo in ordine di sparizione, la dipartita di Charlie Watts – e non se ne faccia una questione sociale) non è sacrilego indicare l’ormai duo originario del Minnesota come uno di quei nuclei, francamente, seminali e intransigentemente continui lungo quasi trent’anni di attività, ai quali bisogna interfacciarsi osservando necessariamente in alto.
HEY WHAT è l’ennesima incarnazione di uno spirito (continuo) di invidiabile rinnovamento e insieme preciso riflesso, integratissimo anzi compenetrato dal sodalizio con BJ Burton, producer noto specialmente per la sua fruttuosissima collaborazione con Bon Iver. Siamo, rispetto al precedente “Double Negative” (2018), dalle parti di una riduzione all’osso molto più tendente alla luce, alla melodia, persino – in un certo qual senso – alla speranza. Non dunque dieci litanie funebri ma piuttosto dieci salmi responsoriali, introdotti dalla loro faccia più dura: la chitarra granitica eppure frammentata di White Horses, col suo tono da fin du siècle che in realtà fuorvia – almeno in parte – l’ascoltatore. I Can Wait si attacca immediatamente all’apripista, cominciando a macchiarne la gravità. Sia chiaro: non va assolutamente mistificata la scrittura come ottimista, semmai fatalista in toni – non ci sorprende – spiritualmente pacificati e consapevoli. Lo schema di All Night ribadisce il concetto di nenia post apocalittica, di buonanotte per vampiri – ancor più Disappearing con il suo scrosciare di glitch, avanti e indietro come le onde di una navigazione non a caso esaltata all’interno del magnifico testo: “That disappearing horizon / It brings cold comfort to my soul / An ever-present reminder / The constant face of the unknown”.
La lunga e trasognata coda di Hey – che si accartoccia in aliti sempre più eterei a partire da spettri di vocalizzi e singhiozzi ambient – giunge algida al gospel politico Days Like These, anch’esso segnato da una dilatazione conclusiva che in questo caso (de)genera (nel)l’unica traccia puramente strumentale del lotto: There’s A Comma After Still. La cornice si chiude sulla malinconica ballad Don’t Walk Away, in cui le voci dei due coniugi s’intrecciano in una (ennesima) commovente promessa: “I have slept beside you now / For what seems a thousand years”. Dalla canzone d’amore al sussulto elettrico aggressivo di More il passo è brevissimo, quasi inesistente – come lo è la (de)strutturazione cacofonica della materia all’interno del suo fluire.
Con un arrivederci dal gusto quasi à la “Kid A” – The Price You Pay (It Must Be Wearing Off) – pulsano gli ultimi decisi, vivissimi battiti di un’opera che, contrariamente all’intervista sopracitata, potrebbe pure suonare, ogni tanto, come qualcosa d’altro – ma certo non in tutte le sue componenti compositive ed emotive. Ai Low non interessa essere nuovamente intrappolati in un genere, in uno stile, in un’adesione che non sia adesione alla vita. La mutevolezza è per loro oggi: l’acqua, che erode la roccia. Domani – la roccia, erosa dall’acqua. Molto forti, incredibilmente vicini. In questo senso, sicuramente, unici.
(2021, Sub Pop)
01 White Horses
02 I Can Wait
03 All Night
04 Disappearing
05 Hey
06 Days Like These
07 There’s A Comma After Still
08 Don’t Walk Away
09 More
10 The Price You Pay (It Must Be Wearing Off)
IN BREVE: 4,5/5