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Mac Miller – Balloonerism

Quando viene pubblicato un album di un artista scomparso, specialmente un artista di grande talento e/o molto amato, il pensiero verso il quale la mente si dirige è di solito uno: il fondo del barile. Quel “rape of the vaults” con il quale in maniera cinica quanto autoronica i bootlegger apostrofavano le collezioni illegali di scarti del defunto Cobain. E negli anni abbiamo visto numerosi (in)degni esempi di questo tipo, da qualche imbarazzante bootleg di tre ore di Morrison ubriaco in qualcuno tra i peggiori concerti della sua carriera, l’instancabile sete di Best Of e Greatest Hits pubblicato a ritmo quasi biennale dalla premiata ditta May/Taylor, o ancora qualche porcheria a nome Tupac infarcita di orribili collaborazioni postume.

Nel caso di Mac Miller, questo non è il primo album postumo, che è l’eccellente “Circles” del 2020, ma anche il precedente “Swimming” (2018) c’è andato molto vicino, uscendo un solo mese prima della sua tragica overdose; le aspettative sono quindi state minimamente alzate dall’altissima qualità del predecessore. Potremmo anche sostenere che le aspettative dovrebbero comunque essere alte per il talento quasi osceno del giovane di Pittsburgh: un talento generazionale al pari di Kendrick Lamar ma certamente meno criticamente celebrato, probabilmente perché mentre i testi di Kendrick sono evidentemente sociali – nonostante le brucianti sessioni pubbliche di autoanalisi e di analisi del suo ruolo nella società quasi al limite del narcisismo all’interno dei suoi brani migliori – quelli di Miller potrebbero apparentemente essere bollati come quelli di un altro rapper strafatto. Eccolo qua: fentanyl, purple drank ed erba, che parla di farsi e di ficcare.

Questo Balloonerism, registrato in due settimane nello stesso periodo dell’acclamatissimo mixtape “Faces” (2014), risente di quel periodo della vita di Mac, per sua stessa ammissione un periodo di eccessi di ogni tipo. Ed infatti l’aspetto musicale (sul quale torneremo a brevissimo) è fortemente psichedelico e sperimentale, e i testi vertono spesso su abusi di sostanze varie. Tuttavia non è di becera celebrazione che parliamo: Miller analizza a fondo il rapporto con le sostanze e lo integra all’interno di una visione del mondo e del sé estremamente complicata. La droga è inferno ma è anche medicina necessaria: “I wish my drug dealer took the Amex (The Amex) / Can’t find my debit card”. Potrebbe sembrare una vanteria del ragazzino ricco e famoso che paga lo spacciatore con la sua American Express, ma a ben vedere la frase nel contesto del brano (Shangri-La) è più un’amara constatazione di quanto quotidiana possa essere l’attività, non diversa o meno necessaria di altre.

Ed è questa la chiave di lettura delle liriche di Mac: nessun vanto, ma un occhio che constata se stesso e il proprio stato. E lo stato di Mac Miller nel 2014 è lo stato di qualcuno che sa di non venirne fuori, che pensa alla morte come conseguenza naturale della situazione: “The weather’s nice today, what a perfect day to die” dice ancora in Shangri-La, “What does death feel like?” chiede invece in Rick’s Piano, e ancora “It feels like I’m dying, I’m dead” in Manakins. Quel misto di domande e risposte, sul sé, sulla vita, sulla morte, su depressione, ego, dolore che pervade la sua intera opera è molto lontano da culi e cocaina di antecedenti e contemporanei, e ha una profondità straordinaria. Rick, che ricorre in diversi pezzi, è Rick Rubin, chiamato per sbaglio da sbronzo e che grazie a quella chiamata finì per accoglierlo in casa per aiutarlo a disintossicarsi.

Ma se l’aspetto lirico degli album di Mac Miller è sempre estremamente acuto, riflessivo ed interessante, viene sempre accompagnato da una ricerca musicale incessante che in questo caso lo ha portato certamente al suo album più psichedelico, nel quale il basso eccellente dell’amico e collaboratore di una vita Thundercat facilita il trip, aggiungendo alle versioni già leakate nel 2020 sofisticati quanto leggeri tocchi di produzione aggiuntiva, coadiuvato dai compari Taylor Greaves, Jameel e Ronald Bruner (anche loro della cricca Kamasiana); l’amicizia e il rispetto che li legava, unita all’enorme talento di Thundercat, ha aggiunto credibilità a tutto l’album senza intaccarne in alcun modo il senso, anzi esaltandolo.

Il momento della vita di Mac nel quale quest’album fu completato – e mai realmente finito – rende i suoi momenti molto toccanti per quanto significativi della tragica, futura sorte del talentuoso rapper. E in questo la conclusiva Tomorrow Will Never Know sembra quasi un enorme trip d’addio, dodici minuti di rap psichedelico che fungono da devastante bigliettino lasciato sotto il cuscino.

2025 | Warner

IN BREVE: 4/5

Nicola Corsaro
Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.