Il fascino e la personalità di Marissa Nadler sono sempre riconoscibili in ogni sua performance. Questo album, realizzato in una inedita partnership con Stephen Brodsky (Mutoid Man, Cave In) non fa eccezione, anche perché del resto Droneflower è a tutti gli effetti una propaggine della sua produzione discografica come solista. Non manca del resto quel marchio di fabbrica “oscuro” condiviso con la storica label Sacred Bones.
Brodsky, che condivide le origini bostoniane della Nadler e con la quale ha un rapporto amicale stretto sin dal 2014, ci mette comunque del suo portando in dote la sua attitudine folk apocalittica, l’imprinting progressive tipo Converge e una componente drone appena accennata, che però bene si addice all’eleganza e alla bella tenebrosità della voce della sua compagna di avventure e giusticia il fatto che il disco sia stato quindi presentato come una collaborazione a tutti gli effetti.
Pare che inizialmente l’intenzione fosse quella di scrivere una sorta di colonna sonora per un film horror, ma in fondo non è che ci fosse bisogno di questo intento specifico per dare al suono una caratteristica dark, dato che questo è un elemento comune a entrambi gli autori. Poi il progetto si è ampliato e si è concretizzato in un vero e proprio disco che ha dei contorni gotici forse eccessivi. Già ballate per piano come le due Space Ghost hanno un tono solenne, quasi barocco, una sfumatura che ha caratteristiche del patrimonio progressive e che si esplica anche in alcune formazioni di arpeggi come quelli di Watch The Time oppure Dead West.
La scrittura delle canzoni è stata fatta di concerto tra i due autori e si sente il tocco riconoscibile di Brodsky nel suono degli strumenti, mentre aleggiano sullo sfondo i fantasmi evocati dalla voce della Nadler. Le performance sono all’altezza della sua bravura ed esaltano la delicatezza di Shades Apart e Buried In Love, la liquidità di Morbid Mist, canzoni ricche di eco e riverberi suggestivi. Però sta di fatto che il bilancio è comunque meno che sufficiente, alla fine ci troviamo pure una cover riuscita di In Spite Of Me dei Morphine, con la presenza della sassofonista Dana Colley, un omaggio che pare persino doveroso perché del resto il sound di quel mitico gruppo costituisce un ideale punto di riferimento nello stile compositivo di “Droneflower”.
Ma siamo lontanissimi da quelle vette, manca ogni spinta innovativa e all’avanguardia e il fatto che il cuore del disco sia poi costituito da una composita rivisitazione di Estranged dei Guns N’ Roses incuriosisce, ma proprio nella sua monolitica – nonostante le apparenze – struttura riconosciamo una sorta di autoreferenzialità e culto di sé, come se tra i due e i Morphine si ponesse nel mezzo proprio una gigantesca “posa” che scava a fondo nella storia della musica folk progressive e che ancora si fa fatica pure oggi, dopo tanti anni, a dismettere.
(2019, Sacred Bones)
01 Space Ghost I
02 For The Sun
03 Watch The Time
04 Space Ghost II
05 Dead West
06 Estranged
07 Shades Apart
08 Buried In Love
09 Morbid Mist
10 In Spite Of Me
IN BREVE: 2/5