Che cosa mi devo aspettare da Mark Lanegan nell’anno 2019, a distanza di decenni dal debutto degli Screaming Trees (“Clairvoyance”, 1986)? Me lo domandavo durante questi giorni, prima di ascoltare il suo ultimo album. Le varie prove discografiche che si sono succedute negli ultimi anni e che hanno visto Lanegan coinvolto in diversi progetti e collaborazioni, sono state alterne: alcune decisamente trascurabili, altre più o meno interessanti. Va detto che le due più recenti, “Gargoyle” (2017) e “With Animals” (2018) in collaborazione con l’amico Duke Garwood, sono state tra le cose migliori che abbia fatto dai tempi del boom definitivo con “Bubblegum” (2004) e che i tempi più oscuri delle pubblicazioni con Greg Dulli si possono secondo me dire definitamente superati.
Questa introduzione, arricchita da una elencazione di date, spiega perché in qualche modo io abbia accolto questo nuovo album della Mark Lanegan Band con una certa passività . A Somebody’s Knocking chiedevo semplicemente di attestarsi sullo stesso livello del precedente “Gargoyle”, non mi aspettavo nessuno spunto particolare. Invece, sebbene continui a pensare che Lanegan abbia raggiunto lo zenit tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, devo considerare che questo qui è il disco più originale che abbia mai fatto.
Ebbene sì, “Somebody’s Knocking” è un album che stupirà tutti, compresi i suoi fan più storici e affezionati, perché mai Mark Lanegan aveva proposto fino a questo momento dei suoni che richiamassero così tanto una certa wave anglosassone degli anni Ottanta, diciamo anche commerciale, unitamente a un rock’n’roll duro e quasi spaccone, comunque differente da quello che viene comunemente considerato il suo campo di riferimento. È il caso delle prime due tracce dell’album, Disbelief Suspension e Letter Never Sent.
Il tema dell’album viene introdotto tuttavia dal terzo brano, Night Flight To Kabul: i suoni rimandano a un immaginario anni Ottanta con persino delle tastiere à la Cure e scelte sul piano degli arrangiamenti che subito appaiono francamente discutibili. La voce di Mark Lanegan stride all’interno di questo contesto e la sensazione di stare ascoltando un mezzo disastro è confermata subito dalla successiva Dark Disco Jag.
Poi però succede qualcosa: Gazing From The Shore è un pezzo che sembra uscire fuori da “Pop” degli U2. Ricordo che all’epoca si parlò moltissimo della voce di Bono Vox, che era stato colpito da raucedine e aveva cambiato modo di cantare per l’occasione. La sensazione qui è la medesima e da questo momento in poi tutto comincia a scorrere in una maniera sensata: Stitch It Up e She Loved You, per non parlare di Name And Number (con un’epica coda con suoni di fanfare), portano su di sé il marchio Joy Division; pezzi come Playing Nero fanno pensare ancora agli U2 ma gli arrangiamenti del synth e il suono del basso tradiscono ancora una certa fedeltà all’immaginario di Ian Curtis e soci.
Penthouse High sembra un brano dei Simple Minds; Paper Hat, War Horse e Two Bells Ringing At Once hanno quella stessa componentistica sul piano dei suoni, ma come Playing Nero mettono al centro la voce di Lanegan e la esaltano proprio in quello stesso contrasto che sopra appariva essere una catastrofe. Radio Silence è forse il passaggio più convenzionale, il più vicino agli stilemi dell’artista.
A un primo ascolto l’effetto è straniante, sembra che qualcosa non torni e allora devi riascoltare il disco per riuscire a “capire”. Poi ognuno capisce ciò che gli pare, io ho deciso che questo è un album quantomeno sufficiente che, seppure non destinato a lasciare un solco nella storia musicale di Mark Lanegan, sarà comunque ascoltato e riascoltato negli anni a venire.
(2019, Heavenly)
01 Disbelief Suspension
02 Letter Never Sent
03 Night Flight To Kabul
04 Dark Disco Jag
05 Gazing From The Shore
06 Stitch It Up
07 Playing Nero
08 Penthouse High
09 Paper Hat
10 Name And Number
11 War Horse
12 Radio Silence
13 She Loved You
14 Two Bells Ringing At Once
IN BREVE: 3/5