Lo shangai. Un mucchio di paletti colorati che piovono per terra e rimangono ingarbugliati tra loro. Il gioco è strecciarli. Come a salvarli, restituirgli la vita che hanno perso. Prendete i paletti e fateli diventare storie. Ce ne sono ancora molte nella voce claustrofobica di Mimì Clementi, sono ammucchiate nello shangai di Cattive Abitudini. Un disco che per i Massimo Volume vuol dire ritorno alla vita dopo che “Club Privé” (l’ultima loro prova prima dello scioglimento, anno 1999) aveva invitato tutti a dimenticare “ciò che era e ciò che è stato” e riporre in cantina non solo un’esperienza musicale, ma anche un pezzetto di vita. Così finirono i Massimo Volume, con un sipario anni ’90 ed una storia rock italiana robusta come radice. Mimì se ne andò in Marocco a scrivere degli El Muniria, Vittoria un po’ qua e un po’ là, Egle si trasformò in albero, nei suoi arpeggi tutti di legno. Poi oggi. Ottobre 2010. Un nuovo lancio di paletti di shangai e nuove storie. Quella di Robert Lowell e dell’equilibrio del monotono sublime, quella di Fausto ipnotizzato dall’insegna al neon della Sony, quella di quell’artista ormai privo del suo successo (Invito al massacro), o di quell’altro in fuga da un banale quadretto balneare (Tra la sabbia dell’Oceano). Storie segnate dal tempo ora “rumoroso” ora “lamentoso”. Il tempo, che è sempre stato il cardine che muoveva le porte espressive dei Massimo Volume in album come “Lungo i bordi” e “Da qui”, è fatale anche in “Cattive Abitudini”, un disco sul massacro nel quotidiano, con storie che raccontano di pochi istanti, squarci, cartoline di vita, passati appuntati in pizzini, fotografie tagliate. Clementi stavolta però le narra e non le vive direttamente: l’autore si tira fuori, si fa romanziere, le stanze di Bologna in cui si chiudeva a scrivere della sua vita bastarda lasciano strada alle vicende, ai luoghi, ai personaggi di piccoli film stretti in irrimediabili conflitti. Il tappeto su cui lo shangai narrativo è in equilibrio è quello dell’elettricità del trittico Burattini-Sommacal-Pilia. Una gamma eccezionale di trovate sonore: chitarre feroci, chitarre languide. Drumming luciferino e poi pacato. Fumi notturni, suoni che arrivano direttamente dalla “Stanza 218”, aperture post-rock, serpentine psichedeliche, blues bui, punk letterari ricoperti di polvere. Una dichiarazione d’amore per la musica, per tutti noi, per chi li ha attesi, per chi ha fatto delle loro canzoni la più insistente delle cattive abitudini. Nella certezza che ciò che sono riusciti a dire, fosse ciò che avevano da dire. Grazie.
(2010, La Tempesta)
01 Robert Lowell
02 Coney Island
03 Le nostre ore contate
04 Litio
05 Tra la sabbia dell’Oceano
06 Avevi fretta di andartene
07 La bellezza violata
08 Invito al massacro
09 Mi piacerebbe ogni tanto averti qui
10 Fausto
11 Via Vasco de Gama
12 In un mondo dopo il mondo
A cura di Riccardo Marra