Il colpo di cesoia stavolta è stato netto, gli ultimi tiranti che mantenevano legati ancora i Mastodon al primordiale post-hardcore sono stati definitivamente recisi. Già con “Blood Mountain” i quattro di Atlanta mostravano la necessità di dover uscire fuori dai confini di un genere al quale hanno indubitabilmente dato un contributo pesante e profondo ma che offriva oramai poche strade da battere, almeno per loro. I Mastodon hanno avuto coraggio e si sono lanciati nel vuoto, in una sfida contro se stessi e addirittura il pubblico, una parte del quale oggi potrebbe iniziare a voltar loro le spalle. Diciamo subito e senza indugi che “Leviathan” resta fino ad oggi il loro capolavoro assoluto ed una delle pietre miliari di questo primo decennio del XXI secolo in fatto di rock estremo; chi, con tendenze revisioniste, mirerà a declassarlo ha poco chiaro il piano evolutivo di una certa tipologia musicale. Come la rinnovata pelle d’un serpente a seguito della muta, l’essenza dei Mastodon appare oggi evidentemente nuova sin da principio: dal loro spartito non si era ancora ascoltata una opener come Oblivion, la quale rompe con una tradizione di brani d’apertura irruenti e terremotanti (si pensi a “Crusher Destroyer”, “Blood And Thunder”, “The Wolf Is Loose”, tutte le canzoni che hanno fin qui inaugurato ognuno dei loro full-length), percorrendo sentieri più lineari, carichi di distensioni sia strumentali che vocali. Saranno questi i due leitmotiv ricorrenti per tutto il disco. Emerge infatti in tutto il suo vigore la spiccata propensione a costruzioni più fluide che, pur tenendo fede a principi di fisicità ed appartenenza al mondo dell’heavy metal, si dimostrano più cerebrali. Le ritmiche convulse e le rullate funamboliche del drummer Brann Dailor latitano quasi ovunque, segno che tutto il modus operandi in sede di composizione è stato fortemente rivisitato e le prime infiltrazioni melodiche che sussistevano in “Blood Mountain” hanno qui preso il largo, sicché per imbattersi in un approccio vocale più catarroso e d’impatto si deve attendere la comparsa sulla scena di Scott Kelly dei Neurosis (alla sua terza collaborazione consecutiva con la band) nella title-track, e lì la terra inizia seriamente a tremare. A produrre c’è Brendan O’Brien, fatto sintomatico per questa virata stilistica che trova nella sola Divinations palesi punti di contatto con “Leviathan”. Fondato su un complicato lavoro concettuale che riecheggia Rasputin e la Russia zarista nel suo declino storico, Crack The Skye rappresenta, per chi non lo avesse ancora compreso, il vero e proprio spartiacque artistico per la formazione di Atlanta. I nostri si lanciano persino sulla stesura di una suite suddivisa in quattro momenti, The Czar, che condensa momenti insolitamente drammatici (Usurper) ad altri in cui il ritmo cresce accennando ai Mars Volta e ai Queens Of The Stone Age (i cori di Escape accendono il ricordo di “The Sky Is Falling”). Ghost Of Karelia si dimostra a lungo andare uno dei vertici dell’opera, edificata su differenti livelli melodici che ben sintetizzano l’idea prog-rock che sottende all’intero disco. Ogni singola composizione gode di vita propria ma è perfettamente connessa con le altre in un regime di coerenza testuale facilmente osservabile anche a primo acchito. The Last Baron, odissea finale di ben tredici minuti, si distende e contrae, espone la sua anima epica in un complesso copione che, ad un certo punto pare incespicare in un arzigogolato ricamo a metà tra math-rock e country. E’ Quintessence, col suo refrain un po’ facilotto, a disfarsi e a perdere il confronto col resto, nel quale spicca la già citata “Oblivion”, in cui ogni singolo tassello riesce a far breccia. La verità è una soltanto: i Mastodon, coscienti di non poter più giungere ad ulteriori innovazioni nella precedente forma, hanno lavorato di cesello, levigando i punti più irregolari e plasmando un progressive rock che condensa al suo interno un trentennio di ricerca musicale: si potrebbero scomodare Iron Maiden e Metallica, ma anche i Voivod (influenza cardine nei paradigmi chitarristici dei nostri) ed i Pink Floyd nelle digressioni più psichedeliche, i King Crimson e le recenti derive dell’alternative rock contemporaneo. Si potrebbe scomodare tutta questa gente ma il four-piece statunitense mantiene salda la propria individualità in un panorama musicale che ha sempre più bisogno di indagare e sondare nuove aree per evitare la stagnazione creativa. Non riteniamo che “Crack The Skye” possa segnare un punto di svolta per lo scibile rock, ma di sicuro potrebbe risultare uno di quegli epicentri le cui onde centrifughe potranno penetrare nel circuito, diventando col tempo vero e proprio fondamento per la sopravvivenza di una determinata costa di musicisti. Una cosa non da poco.
(2009, Warner Bros / Reprise)
01 Oblivion
02 Divinations
03 Quintessence
04 The Czar (Usurper / Escape / Martyr / Spiral)
05 Ghost Of Karelia
06 Crack The Skye
07 The Last Baron
A cura di Marco Giarratana