I Meganoidi son tornati. Più agguerriti che mai. Ma, stavolta, il nemico non è né un invincibile robot ultragalattico né un incorreggibile poliziotto di provincia. E’, invece, il presente: quello loro e quello del mondo. Il nuovo disco della band genovese è un inno alla contaminazione. Contaminazione di se stessi. Più che col mandare tutto alla malora, infatti, la rottura è ottenuta con la ripresa di singoli elementi storici, inseriti in un contesto che fa dei loro ultimi due lavori (“And Then We Met Impero”, del 2005, e “Granvanoeli”, dell’anno successivo) dei presupposti imprescindibili. Il progressive rock sviluppato negli interstizi dei testi, altamente eloquenti e aggressivi, è senza dubbio figlio loro. La voce di Davide Di Muzio, innanzitutto. Inconfondibile, richiama immediatamente alla memoria l’Antisocial Ska degli esordi – è vero – ma col nuovo prodotto si sviluppa molto più a fondo, fino a diventare elegia. Enunciando forte e chiaro, in Aneta, “Amo chi produce / quello che mi piace. / Amo chi mi da / quello che mi va”, potrebbe magari lasciare di stucco molti dei fan della prima ora, ma di sicuro non chi ha seguito il gruppo in ogni sua fase, apprezzando la sua evoluzione ormai ultradecennale. Per costoro, il tradimento non c’è stato: si tratta, semmai, di una correzione di rotta. C’è poi la tromba di Luca Guercio: un vero marchio di fabbrica. Sempre fedele, adesso diventa voce, un’orchestra solista che rende ogni brano poliritmico e interminabile. Il tutto condito da una batteria, a volte martellante (ed a parlare “è solo l’alcol nelle vene” di Dighe) a volte soft e delicata (“un volo d’aquilone” scandito, quasi uno spelling, in Dune), che niente ha a che fare con l’ingenuità della sigla da programma tivù. Non manca il romanticismo (“tu sei l’unica cosa che brilla / alla giusta distanza da terra / per osservarti ad occhio nudo”, dice Mia), che però non fa mai rima con disimpegno: un amore da partigiani, insomma, un mix di cappa e spada che non fa male alla “alternativeness” dei Meganoidi. Apprezzabili contributi alla complessità dell’album provengono anche dal noise di Your Desire, dai toni biblici di Solo Alla Fine, e dalla cantabilità di Scusami Las Vegas. La svolta è annunciata, a gran voce, sin dal primo brano, Altrove, che, iniziando in media res, prende per la collottola e trascina in un mondo rock finalmente da terzo millennio. E ripresa, a metà album, dai colpi di maglio di Ima-Go-Go, che condanna “la codardia di vivere al semaforo”. Infine l’ultimo pezzo, che da il titolo all’album, chiosa programmaticamente: “Mi siedo al posto del fuoco e brucerò quanto vuoi”. L’annuncio di un’auto-consunzione, o la rivendicazione di un posto più “caldo”?
(2009, Green Fog)
01 Altrove
02 Aneta
03 Dighe
04 Dune
05 Scusami Las Vegas
06 Ima-Go-Go
07 Mia
08 Solo Alla Fine
09 Your Desire
10 Stormo
11 Al Posto Del Fuoco
A cura di Filippo Marano