Sono anni ormai che i Metallica cercano di trovare una strada diversa. Una strada, in sostanza, che non li confini a ripetersi per sempre, una via d’uscita dal tunnel di “U2 del metal”, tunnel che, ironicamente, hanno iniziato a scavare con la svolta “pop” (d’obbligo le virgolette) del “Black Album”.
In questi anni, tra una strada e l’altra, sono state le vicende extra musicali a tenere banco: i capelli corti, l’abbandono di Jason Newsted, l’alcolismo di James Hetfield, il patetico docu-reality che narra della terapia alla quale si sono sottoposti, Napster e tutto il circo mediatico che ha accompagnato queste vicende. Sarebbe bello poterle ignorare, queste vicende tristi e noiose, ma di musica di cui parlare, invero, ce n’è stata relativamente poca e spesso bruttina: “Load” e “Reload”, altalenante hard rock, “Garage Inc.”, valido ma dimenticabile, “St. Anger”, agghiacciante come pochi dischi di una band di questo livello di successo, “Lulu”, amorfo esperimento malriuscito e, infine, il classico di tutti i classici, la madre di tutti i dischi di ogni band più che trentenne e in declino, il ritorno alle origini, “Death Magnetic”. Produttore di fama (Rick Rubin), pezzi che spingono verso il trash metal che li ha resi quello che sono e “siamo tornati a fare questo e quello”.
Beh, come da rigorosissimo copione, il disco successivo non può che proseguire sulla stessa falsariga: le nostre origini, facciamo quello che ci piace, eccetera. Rick Rubin non più in cabina di regia, sostituito da quel Greg Fidelman che ha mixato “Death Magnetic”, e Kirk Hammett senza nemmeno un singolo credit, per la prima volta dai tempi “Kill ‘Em All”… ma perché Hammett non ha scritto nemmeno una singola canzone, si chiederà il lettore più curioso? Ha perso il cellulare. Ha perso il suo stramaledetto cellulare dove registrava i riff, non aveva un backup, non ricordava i pezzi, una tremenda inondazione, le cavallette, insomma un’ennesima pagliacciata da reality show della quale la premiata ditta Hetfield & Ulrich non si è curata più di tanto. Del resto, dopo aver sotterrato per il secondo disco consecutivo l’ottimo Trujillo nel mix (cosa che facevano anche con Newsted, niente di personale, Robbé), quale migliore occasione per trasformarsi da U2 del metal in Casa Vianello?
Amenità a parte, Hardwired… To Self-Destruct tutto sommato funziona. È chiaro che non saranno mai più i Metallica pre-90s (e sarebbe anche assurdo pretenderlo, a 50 anni suonati), ma c’è del buono in questo lunghissimo album, un album che pesca dal passato senza – finalmente – imitarlo, che si gloria del trash che fu (in particolare nei due singoli Hardwired e Moth Into Flame, due dei migliori pezzi della band da tanti anni a questa parte) ma capisce di non avere i muscoli per andare alla velocità necessaria, né la necessaria follia per portare i pezzi in direzioni ignote. Si naviga a vista, immersi per larga parte dell’album in un plumbeo midtempo con un Hetfield ormai tecnicamente in controllo della sua voce, il che per molti potrebbe togliere appeal ma – lo ripetiamo – è assurdo pretendere che un cinquantenne sia uguale a se stesso trent’anni prima.
E non è uguale a se stesso Lars Ulrich, che già da tempo viene criticato per i suoni della sua batteria e che palesemente arranca dietro ai suoi compari ancora in discreta forma. L’orribile e ormai leggendario suono di rullante registrato su “St. Anger” qui non si ripresenta di certo, lasciando spazio ad un mix meno snervante (e meno compresso che in “Death Magnetic”) per l’ascoltatore, ma ciò non toglie che il batterista di origine danesi sembra definitivamente aver perso qualunque cosa fosse (e ce lo chiediamo ancora cosa fosse, dato che non era la tecnica) a renderlo perfetto per gli straordinari capolavori degli anni Ottanta. Ancora, come già detto, il mix si dimentica del basso a tutto detrimento della band, alla quale il suono, la creatività e la qualità del Trujillo sentito su “No More Tears” di Ozzy Osbourne servirebbero come il pane.
Insomma, tanta carne al fuoco nei 77 minuti che compongono “Hardwired… To Self-Destruct”, che esalterà i fan sfegatati e non convincerà i detrattori più acerrimi. Tutti gli altri resteranno a domandarsi la ragione di un secondo disco che non aggiunge nulla e anzi diluisce l’effetto positivo, del come mai dopo ripetuti ascolti si fatichi a ricordare alcuno dei pezzi e del perché Ulrich ed Hetfield non riescano ad essere ragionevoli neanche avvicinandosi alla vecchiaia, restando ad ascoltare una comunque buona prima metà per quelle tre o quattro volte prima di dimenticarla e tornare a “Master Of Puppets”.
(2016, Blackened)
DISCO 1
01 Hardwired
02 Atlas, Rise!
03 Now That We’re Dead
04 Moth Into Flame
05 Dream No More
06 Halo On Fire
DISCO 2
01 Confusion
02 ManUkind
03 Here Comes Revenge
04 Am I Savage?
05 Murder One
06 Spit Out The Bone
IN BREVE: 3/5