Sono passati ormai davvero tanti anni da quando qualcuno coniò per la prima volta la definizione “post rock” per identificare la destrutturazione della canonica forma canzone rock, la netta (laddove non totale) prevalenza di trame esclusivamente strumentali e i climax come ago della bilancia.
Sono passati così tanti anni e sono state talmente tante le variazioni sul tema, da averci portato oggi a non avere più ben chiaro – ammesso possa essere davvero utile averlo chiaro – quand’è e quando non è corretto affibbiare tale etichetta a una band. Il post rock che ha messo da parte le chitarre, il post rock che s’è perso anch’esso nelle trame dell’elettronica, il post rock poppizzatosi negli stringati tre minuti e mezzo di un singolo qualsiasi. Il post rock che, con ogni probabilità, non è più post rock per come l’avevamo conosciuto.
A parte il filone post metal, che è di certo la deriva che vanta miglior salute, resistono ancora e con ottimi risultati giusto una manciata di quelle band che ci avevano fatto amare le cavalcate cinematiche e atmosferiche: su tutti i Mogwai, pur nelle loro continue ma coerenti evoluzioni; oppure i Godspeed You! Black Emperor e gli Explosions In The Sky. E poi i giapponesi Mono, che vengono dall’altro lato della Terra ma che hanno saputo raccogliere input provenienti da molto lontano. Loro, che non sono mai, davvero mai scesi a compromessi, hanno fatto del proprio stile un vessillo da portare in giro per il mondo, riconoscibile a distanza grazie a un tocco nipponicamente ordinato che li ha sempre differenziati da certo caos compositivo che ha caratterizzato e caratterizza altre esperienze assimilabili.
Con Nowhere Now Here i Mono arrivano al decimo sigillo discografico e lo fanno nel modo che gli è più congeniale e per questo a noi familiare: dipingendo paesaggi sonori dal respiro scurissimo, sferzate che sono lame di cento rasoi sul viso e deflagrazioni da fine del mondo. La title track, Sorrow e Meet Us Where The Night Ends, non a caso le tracce più lunghe del disco con i loro rispettivi oltre dieci, oltre otto e oltre nove minuti, racchiudono in sé l’essenza dei Mono e del loro modo di concepire le atmosfere, ricche di pathos e sempre sul punto di implodere.
Se la scrosciante potenza di After You Comes The Flood paga pegno alla sopraccitata deriva metal, è in Breathe che si trova invece la grandissima nonché unica novità portataci da “Nowhere Now Here”: la voce della bassista Tamaki Kunishi, abile nell’inserirsi nel gioco del disco con una prova a cavallo tra l’oscuro dream pop dei This Mortal Coil e i Dead Can Dance degli ’80. Le orchestrazioni del precedente “Requiem For Hell” (2016) vengono qui ridotte all’osso (ma gli archi di Parting sono comunque da brividi), così come non viene sempre rispettato il classico canovaccio del climax ascendente: Far And Further in questo senso ne è la lampante dimostrazione, sempre appesa com’è per la sua intera durata.
Pur avendo aggiunto poco o nulla alla propria dimensione artistica, i Mono vanno ringraziati per il solo fatto di essere riusciti a tenere ancora una volta in vita un formato descrittivo e penetrante come pochi, magari ripetitivo, magari ormai desueto (ecchissenefrega), ma debordante in quanto a espressività. Tanto basta per far meritare una chance anche a questo “Nowhere Now Here”.
(2019, Pelagic / Temporary Residence)
01 God Bless
02 After You Comes The Flood
03 Breathe
04 Nowhere, Now Here
05 Far And Further
06 Sorrow
07 Parting
08 Meet Us Where The Night Ends
09 Funeral Song
10 Vanishing, Vanishing Maybe
IN BREVE: 3,5/5