In che modo si può riuscire a riconoscere un artista moderno e cosa vuol dire, oggi, essere moderni? Non sono certo i suoni strambi a fare la differenza, né le destrutturazioni, né tantomeno una miscellanea di riferimenti presi e impastati tra loro. No, la differenza la fa il non riuscire a trovare già a primo acchito le parole adatte a darne una definizione, proprio oggi che delle etichette se ne abusa come mai prima e che tutti, in qualche modo, abbiamo sempre l’aggettivo giusto sulla punta della lingua.
L’effetto di questo Aromanticism, debutto lungo del californiano Moses Sumney, è proprio quello: ci provi, ci riprovi a trovare un gancio chiaro cui appigliarti per iniziare una qualche forma di analisi e niente, non c’è niente che t’aiuta davvero. Perché se ne potrebbe parlare come di un songwriter e senza sbagliare, visto che l’impianto dei pezzi è quello classico: tanta acustica già a partire dal primo vero brano Don’t Bother Calling e, soprattutto, l’aspetto concettuale che incentra il disco sulla solitudine intesa come assenza di relazioni vere e coltivazione di rapporti fittizi che servono solo a colmare vuoti.
Ma in pratica Sumney è un mondo parallelo in cui passato e presente si fondono, partorendo quasi una dimensione parallela in cui c’è solo lui, distante da noi e dal mondo che conosciamo, staccato di un metro da terra come nella simbolica copertina del disco. Sumney fa musica nera, sì, altrimenti l’enormità di rimandi soul e r’n’b che impregnano Plastic o Make Out In My Car non sapremmo come spiegarli, ma nel mezzo ci mette due intermezzi spoken, Stoicism e The Cocoon-Eyed Baby, che sono i Pink Floyd se avessero operato a Bristol negli anni ’90.
Strizza l’occhio a capisaldi del nuovo millennio come Bon Iver, col neo-folk di Indulge Me che pare quasi un omaggio alla prima fase della carriera di Vernon, ma prima si lascia andare senza freni nel finale psych-jazz di Quarrel, in cui si sente qualcosa dei Tame Impala, per poi pagare pegno anche agli ultimi Radiohead con gli arzigogoli electro di Doomed e della conclusiva Self-Help Tape. E infine Lonely World, perno fisico e compositivo di “Aromanticism” in cui c’è tutto ciò che s’è detto e molto altro, in un vero e proprio affresco dell’intera opera in neanche cinque minuti.
Le sfumature cangianti della voce di Sumney, il suo lasciare l’ascolto sempre sospeso tra l’estasi e la riflessione, fanno il resto della riuscita di un album che senza presunzione traccia delle linee di demarcazione nettissime e fra quelle linee costruisce un mondo intero. Ecco, se la stavate cercando, è qui che si trova la modernità.
(2017, Jagjaguwar)
01 Man On The Moon (Reprise)
02 Don’t Bother Calling
03 Plastic
04 Quarrel
05 Stoicism
06 Lonely World
07 Make Out In My Car
08 The Cocoon-Eyed Baby
09 Doomed
10 Indulge Me
11 Self-Help Tape
IN BREVE: 4,5/5