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Nu Genea – Bar Mediterraneo

“Io non ascolto musica italiana… perché è troppo italiana!”. Questa parafrasi di una nota frase di Stanis La Rochelle può sembrare un modo ridicolo per iniziare a parlare del nuovo disco di una band italiana, ma ha le sue ragioni. Infatti la musica pop/rock/funky/hip hop italiana è da qualche decennio entrata dentro un tunnel; un tunnel che inizialmente era stato presentato come “indie”, sulla scorta di implicite indicazioni del mercato anglo/americano ma che, grazie all’intuizione di Amadeus (che, del resto, di mestiere faceva il dj) è rientrata nella sua casa naturale, quella del Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

Dapprima per includere fette di mercato popolari col pubblico dei giovani, oltre a scongelare ogni anno qualche over-60 di grande professionismo ma con proposte musicali non proprio esaltanti. Ma poi, ad un orecchio minimamente competente, ci si è accorti di quello che in tanti sostenevamo da tempo: la struttura musicale di questo famoso “indie italiano” è sostanzialmente simile sia al pop che propongono quelli usciti dai talent con il  loro ambaradan di autori, sia, orrore orrore, al pop che propongono Iva Zanicchi e Michele Zarrillo allorché chiamati alle armi per la Grande Kermesse. Certo, hanno qualche piercing in più, vestono diversamente, parlano di inclusività e sessualità, ma alla fine della fiera o meglio alla fine del Festival, quei brani insieme ci stanno davvero bene, nella grande narrativa popolare della ballata italiana, della canzone danzereccia italiana, della mielosa caramellosa smarmellata di sentimenti che fanno rima con amore, con occhi, con cuore, perché io per te allora tu per me, eccetera.

Ma la musica italiana non deve necessariamente essere questo. Non deve essere necessariamente una parodia di cinquant’anni di pop, da Nilla Pizzi ai Coma_Cose passando per Mietta/Minghi. Perché, volendo, l’Italia ha una grande tradizione di grandi sperimentatori, di grandi musicisti, di grande musica che non sia sole/cuore/amore, i miei occhi, la tua bocca, le mie mani.

I due ragazzi napoletani, la cui occupazione principale per un bel po’ è stata passare musica strepitosamente ignota e varia nei club di Berlino, lo sanno da tempo e non è che facciano guerra a qualcosa o a qualcuno, ché di solito quello è un segno di non avere tanto da dire, ma semplicemente di volere una fetta di torta pure loro. No, semplicemente Lucio Aquilina e Massimo Di Lena, in arte i Nu Genea (già Nu Guinea, nome cambiato per diverse ragioni relative all’appropriazione culturale ed all’offensività dell’epiteto “guinea” negli U.S.A.), semplicemente, hanno qualcosa da dire.

Lo dimostrarono nel bellissimo (e forse ingiustamente sottovalutato in patria) “The Tony Allen Experiments” (2016), registrato, come dice il titolo, con il maestro Allen, qui nuovamente presente in Straniero – a dimostrare la lunga gestazione di Bar Mediterraneo, dato che Allen ci ha lasciati nel 2020; lo dimostrarono ancora di più mettendo insieme una band straordinaria per “Nuova Napoli” (2018), un’epifania disco/funky mista alla canzone napoletana classica, estremamente antica ma allo stesso tempo fresca e moderna. E, visto il suo successo, evidentemente quella visione trova riscontro in chi ascolta.

Oggi, quattro anni dopo, ritornano con “Bar Mediterraneo”, sicuramente meno napoletano e più aperto al vento nordafricano, saldi in quel mondo sonoro che hanno perfettamente introdotto con “Nuova Napoli” ma con suoni nuovi, diversi, ancora una volta freschi, quasi difficili da descrivere. E questi suoni passano intanto per le voci: ancora una volta Fabiana Martone, che qui dimostra non solo il suo ormai palese talento ma anche una duttilità non da poco, passando dal quasi urlo di Tienaté alla malinconia sofisticata della conclusiva La Crisi (uno dei pezzi migliori dell’album).

O ancora la voce di Célia Kameni, irresistibile nel mischiare francese e napoletano in Marechià (“Je suis là-bas, là-bas, lla abbasc’ a Marechià”); o, sorprendentemente, un coro di bambini che intona una versione disco di Vesuvio, un pezzo che sembra una di quelle tamurriate antiche le cui origini possono essere tracciate nei secoli passati (e che venne difatti usata ne “I Soprano” per sottolineare la napoletanità di Furio Giunta, assassino acquisito dalla famiglia del New Jersey prelevandolo direttamente da Napoli), ma che invero è un pezzo degli anni novanta degli E Zezì Gruppo Operaio.

E non sorprende, ad un ascolto ripetuto, sapere che Aquilina e Di Lena siano considerati estremamente perfezionisti: la cura sonora estremamente ricercata nei dettagli che esalta le qualità degli ottimi interpreti è frutto di estenuante lavoro, e si sente. Ed è la cultura musicale, la passione per la ricerca di sonorità che continua ad emergere nel percorso dei Nu Genea, e che lo rende interessante.

Ci sarebbe tanto altro da dire, tanti altri ospiti da citare (Marzuk Mejri alla voce e al flauto ney in Gelbi, Marco Castello alla voce in Rire), ma basterà dire questo: Aquilina e Di Lena, che iddio o chi per lui vi preservi intonsi, e che la linfa vitale della vostra musica possa ispirare giovani non a cercare quindici minuti di culo al sole (“Il sole batte anche sul culo di un cane”, diceva Wesley Snipes in “White Men Can’t Jump”) ma a dire quello che vogliono realmente esprimere, senza compromessi.

(2022, NG / Carosello)

01 Bar Mediterraneo
02 Tienaté
03 Gelbi (feat. Marzouk Mejri)
04 Marechià (feat. Célia Kameni)
05 Straniero
06 Vesuvio
07 Rire
08 La Crisi

IN BREVE: 4/5

Nicola Corsaro
Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.