Nonostante nel 2011 fosse davvero impossibile non essere investiti da “Little Talks”, negli anni a venire ho sempre associato le atmosfere degli Of Monsters And Men a “Dirty Paws”. Non che si tratti di due tracce diametralmente agli antipodi, per carità, va da sé che entrambe rientrassero nella trackilst di “My Head Is An Animal” (2012).
Senza facoltà di scelta, quell’esperienza sinestetica mi propinava inevitabilmente la scena in cui Ben Stiller, nei panni Walter Mitty, sfrecciava sui sentieri di Grundarfjörður con una biciclettina rubata. Era abbastanza evidente che i primi due album del gruppo islandese fossero un’ode sincera a quella terra selvaggia in cui l’eco si espande tra geyser, ghiacciai e vulcani. Fever Dream arriva sul mercato a quattro anni di distanza da “Beneath The Skin” (2015) ma segna un passaggio decisivo nella carriera degli Of Monsters And Men: dalla scalata avventurosa su sentieri impervi alla bonifica del territorio.
Di febbrile quest’album ha più genericità che sogno; più che definiti invece i confini dei rimandi a un pop altrui già collaudato, di manifattura talvolta ottima, impossibile non scorgere l’ombra dei Florence And The Machine in Wild Roses, altre volte discutibile, come i Coldplay in Vulture, Vulture o War, altre ancora datata come il fantasma dei Frankie Goes To Hollywood in Waiting For The Snow.
Nonostante le trame liriche, di gran lunga più interessanti di quelle sonore, come l’ironia amara di Ahay e Róróró e una buona dose di riferimenti ancestrali, alligatori, avvoltoi, rose selvagge, profezie, “Fever Dream” non contiene elementi sufficienti atti a bilanciare quella sensazione di pop europeo preconfezionato di cui l’album è melanconicamente infarcito. Ed è un peccato, perché in un modo o nell’altro gli Of Monsters And Men erano riusciti a colonizzare l’area del dream pop, con quell’atmosfera atavica che molti colleghi non detengono per ovvi motivi, primi fra tutti i The Lumineers.
La smania di fuga da sé stessi di Nanna Bryndís Hilmarsdóttir e Ragnar “Raggi” Þórhallsson si traduce in esperimenti confusi e texture che tradiscono la risonanza emotiva cui vogliono aspirare. È apprezzabile il tentativo di schivare l’autoritratto caricaturale ma non lo è altrettanto il risultato, noioso anche per la stessa band, siamo pronti a scommettere.
(2019, Republic)
01 Alligator
02 Ahay
03 Róróró
04 Waiting For The Snow
05 Vulture, Vulture
06 Wild Roses
07 Stuck In Gravity
08 Sleepwalker
09 Wars
10 Under A Dome
11 Soothsayer
IN BREVE: 2/5