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Orville Peck – Bronco

A differenza di un EP (come “Show Pony” del 2020), la pubblicazione di un album si porta dietro tutta una serie di dinamiche e questioni tecniche da cui dipende la sua buona riuscita. Il sequencing è una di queste. L’arte di ordinare le tracce ha plurime finalità: consente ai piccoli dettagli di brillare al massimo delle loro possibilità e costruisce una narrativa avvincente che conduca l’ascoltatore a non skippare compulsivamente. Il sequencing è il reale motivo che permette di restare dentro l’album, di non andare via. 

Nonostante il country non sia mai stato un genere particolarmente cool e il binomio cowboy-queer non rappresenta di certo un esempio di avanguardia pura, “Pony”, il debutto di Orville Peck del 2019, fu una delle uscite più interessanti di quell’ultimo anno di vita normale. Una collezione di maschere con le frange, i suoi toni caldissimi, quella linea sottile linea di confine tra angoscia e romanticismo, un po’ country, molto pop, un pizzico shoegaze, un lieve accenno al post punk e una spiccata indole cinematografica hanno fatto sì che, in brevissimo tempo, Peck circolasse su tutte le piattaforme digitali conquistandosi un cameo nella colonna sonora di “Euphoria” e un posto sul palco del Madison Square Garden come opener di Harry Styles.

Tutti fattori che se da un lato fungono da spinterogeno verso territori di conquista, dall’altro non fanno altro che aumentare il rischio di malcontento. Come sequel di “Pony”, Bronco sembra implicare un naturale percorso di maturazione, ma non tutto sembra essere andato nel verso giusto. Il secondo LP di Orville Peck ha due pecche fondamentali: la lunghezza e il sequencing. Tra classici country banali e un po’ imbarazzanti (C’mon Baby, Cry, Lafayette), ballad zuccherose (The Curse Of The Blackened Eye), mid tempo noiosi (Outta Time), il lato A contiene una sfilza di pezzi del tutto dimenticabili.

Il lato B, invece, riesce a ribaltare buona parte della situazione. E dunque, tra tracce da scartare e un ordine che appare essere randomico, proviamo a fare una nuova tracklist sequensiandola in maniera differente. La chiameremo – perdonate la poca immaginazione – “Bronco IV”. Ad aprire quest’album ipotetico ci penserebbe l’armonica springsteeniana di Kalahari Down; a seguire Any Turn, un rock’n’roll classico; un pezzo uptempo come Daytona, se incastrato dopo i reverberi sognanti di Trample Out The Days, acquisterebbe maggiore brillantezza; il bluegrass spoglio di Hexie Mountains; All I Can Say, scritta ed eseguita in coppia con Bria Salmena, nonostante ricordi un po’ troppo la “Fade Into You” dei Mazzy Star, resta a suo modo accattivante e offre un suono più completo prima della chiusura affidata all’intimità di City Of Gold. Alcuni di questi pezzi (Hexie Mountain), non sono ruspanti come i paesaggi a cui Peck ci ha abituato, ma rivelano un talento vocale dell’artista canadese che non si limita a eseguire meccanicamente un unico stile vocale.

I tre anni a cavallo tra “Pony” (2019) e “Bronco” saranno estremamente difficili da superare. Poco prima di Marzo 2020, Peck veniva inserito nella line-up del Coachella e si preparava a portare “Pony” fuori dagli Stati Uniti. Poi, ovviamente, il nulla. Come tantissimi altri ha trasformato la scrittura musicale in una terapia per liberarsi dalla delusione derivante dall’essere stato costretto ad annullare tutti i progetti legati al successo di “Pony”. Una parte di quest’album rappresenta senz’altro la sua volontà di giocarsi il tutto per tutto, godersi la libertà di scrivere e suonare senza riflettere troppo sulle conseguenze. Il responso finale non è né un sì né un no. Le maschere sfrangiate non bastano più e con loro neanche il solo talento vocale. Ma ci sono discrete premesse perché possa avere la possibilità di mostrare altro, oltre questo.

(2022, Columbia)

01 Daytona Sand
02 The Curse Of The Blackened Eye
03 Outta Time
04 Lafayette
05 C’mon Baby, Cry
06 Iris Rose
07 Kalahari Down
08 Bronco
09 Trample Out The Days
10 Blush
11 Hexie Mountains
12 Let Me Drown
13 Any Turn
14 City Of Gold
15 All I Can Say

IN BREVE: 3/5

Lejla Cassia
Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.