Sul web le notizie corrono in fretta, banale ma pur sempre vero; così la rosa di informazioni relative a Orville Peck nel corso delle ultime settimane si è ampliata notevolmente: si sa, ad esempio, che dietro la maschera a frange di pelle (ne possiede quindici in totale e sono tutte rigorosamente cucite a mano da lui) si nasconde Daniel Pitout, batterista della band punk canadese Nü Sensae, sicuramente in linea con le inclinazioni della Sub Pop.
Sarà stato anche questo che avrà convinto l’etichetta sporca e cattiva per eccellenza a mettere sotto contratto Peck per il suo album di debutto, perché Pony, primo lavoro da solista di Pitout sotto lo pseudonimo di Orville Peck, è tutto tranne che sporco e cattivo. O forse no? Per provare a dare una risposta convincente, la base di partenza più appropriata è la passione di questo stravagante artista per lo stile cinematografico di John Waters: “Ciò che amo di lui – ha dichiarato durante un’intervista – è che rappresenta un perfetto esempio di qualcuno che si è ispirato alla comicità, alla banalità e a tutte le cose della vita che non sono necessariamente strane, ma che alla fine diventano eccentriche e oscure”.
Peck, che riprende l’utilizzo della maschera neutra con la stessa accezione data da Jacques Lecoq, incarna un caleidoscopio a cavallo tra Dolly Parton, Johnny Cash, Roy Orbison e David Lynch, con un’ossessione giovanile per un certo tipo di punk un po’ cotonato e racconta nella maggior parte delle tracce dell’album, storie d’amore omosessuali. Il debutto di Peck con la Sub Pop detiene un inconfondibile marchio country, serpeggiando attraverso rodei sotto grandi cieli americani, pianure spazzate dal vento e città fantasma ma limitarlo solo a questo sarebbe ingiusto.
Andando oltre l’atto di rinchiudere l’artista dentro la categoria di “fuorilegge mascherato”, “genere country” e “crooner”, Peck propone sfacciatamente una nuova interpretazione di tutti i cliché della musica country, sfidandone le norme sonore e stilistiche, avventurandosi in momenti pop shoegaze (Dead Of Night), episodi unti (in tutti i sensi) di post punk (Buffalo Run) ed electro pop (Turn To Hate, Queen Of The Rodeo).
A riprova di quanto risulti accurata la trattazione dello strano, dell’emarginato, del malinconicamente inquietante, il videoclip di Dead Of Night, girato al Chicken Ranch, il leggendario bordello legale in Nevada che ha ispirato il musical “The Best Little Whorehouse In Texas”, con protagoniste alcune tra le donne che vi lavorano, celebra i reietti esattamente come faceva John Waters. Non mancano all’interno dell’album episodi di dubbio gusto e malamente sopportabili (vedi Take You Back, Roses Are Falling, Nothing Fades Like The Light) ma sono strafalcioni superabili rispetto all’attenzione che desta tutto il circo itinerante di Peck.
“Pony” s’intitola così perché ha più di una connotazione: l’ovvio riferimento ai cowboy, un termine tipico del gergo omosessuale, l’aspetto vistoso, un lato solitario, una figura triste, non un cavallo, non un asino, solo un ragazzo gentile e triste. Stiamo a vedere.
(2019, Sub Pop)
01 Dead Of Night
02 Winds Change
03 Turn To Hate
04 Buffalo Run
05 Queen Of The Rodeo
06 Kansas (Remembers Me Now)
07 Old River
08 Big Sky
09 Roses Are Falling
10 Take You Back (The Iron Hoof Cattle Call)
11 Hope To Die
12 Nothing Fades Like The Light
IN BREVE: 3,5/5